Fare apicoltura oggi, soprattutto se da questo mestiere si vuol trarre del reddito, è diventato estremamente difficile, pressoché impossibile senza un lungo iter formativo. Eppure solo 50 anni fa era considerato un lavoro semplice, quasi banale se non fosse perché le api pungono e non fa piacere a nessuno essere regolarmente a contatto con chi ci può provocare del dolore. Basta parlare con qualche vecchio che ha abitato la campagna per capirlo; ci racconterebbe che quando era giovane quasi ogni famiglia aveva degli alveari che sistemava in qualche avanzo di terra difficile da coltivare; le visite agli alveari si limitavano a quelle necessarie alla smielatura o poco più.

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Desulo, apiario 1925-1927.

Cosa è successo? Semplicemente che per rispondere all’imperativo della crescita del PIL le aziende (e mi ci metto anch’io che traggo gran parte del mio reddito allevando questo paziente insetto) stanno portando alle estreme conseguenze un modo di fare apicoltura sempre più esasperato in cui ci si sente in diritto di imporre alle api qualsiasi tecnica che apporti un vantaggio economico. Naturalmente questo è un problema di ogni comparto produttivo e l’abuso di pesticidi in agricoltura non è che figlio della stessa matrice culturale, ma a rimetterci anche in questo caso è l’ape (anche noi, a lungo andare, però) che spesso cade vittima innocente dell’avvelenamento delle campagne. La timida sospensione dell’autorizzazione all’uso dei concianti a base di neonicotinoidi dei semi di mais, (sospensione e non bando, solo per il mais e non per tutte le colture visitate dalle api), del Ministero della Salute italiano, malgrado il pesante j’accuse dell’EFSA, consulente scientifico indipendente dell’Unione Europea, la dice lunga di come questa cultura sia difficile da sradicare.

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“potere allo sciame”. Fotografia di Ivan Previsdomini, 2015

Ma per l’umanità è opportuno che per allevare un insetto talmente utile sia necessario arrivare ad così alto grado di specializzazione? Se fosse solo perché dal suo allevamento si ricavano tanti prodotti utili alla nostra vita (miele, cera, propoli, polline, pappa reale e, ora, anche il veleno) allora, forse, si potrebbe anche sospendere il giudizio, ma analizzando il suo vitale ruolo di agente impollinatore di piante di interesse agricolo e ambientale, allora le cose cambiano.

Il primo ad essersi interessato alla semplificazione dell’apicoltura fu negli anni ’40 dello scorso secolo l’abate francese Émile Warrè che aveva intuito quali problemi erano nascosti dietro le arnie a favo mobile (soprattutto il modello Langstroth e Dadant) che piano piano stavano soppiantando le vecchie arnie tradizionali a favo fisso. Innanzitutto la difficoltà di autocostruzione e di gestione che relegava l’apicoltura ad allevamento per pochi specializzati (quello che poi è effettivamente successo), mentre lui pensava che sarebbe stato meglio se ognuno poteva prodursi il proprio fabbisogno di miele. Inoltre aveva capito che le moderne arnie non seguivano il naturale comportamento delle api, ma cercavano di piegarlo alle necessità dell’apicoltore.

Costruì un’arnia che più di tutte rispetta ciò che l’ape realizza in natura: in essa le api possono costruire i favi partendo dall’alto e proseguendo il loro lavoro verso il basso; ha la forma che grosso modo avrebbe il suo naturale ricovero, il tronco di un albero, e rispetta il normale flusso d’aria che c’è nell’arnia naturale. Al contrario, nelle arnie a favo mobile, per lo spazio che c’è tra telaino e parete dell’arnia, necessario per poter estrarre il favo, il calore si omogeneizza tra i telaini. Se i favi, invece, sono attaccati alle pareti dell’arnia, l’aria (specialmente quella calda) rimane imprigionata tra i favi, soprattutto se sono “a caldo” – ovvero paralleli alla porticina di volo – come le api preferiscono costruirli; in tal modo le api sono facilitate nel mantenere il calore del nido. In questo tipo di arnia, inoltre, per produrre miele non è necessario aprire spesso l’alveare e non permette, anche volendo, di sottoporre le api alle tecniche più spinte di produzione; inibire la sciamatura è pressoché impossibile.

Nel 1964, poi, nacque dalla mente di alcuni ricercatori inglesi tra i quali la grandissima Eva Crane, l’idea di realizzare un’arnia che fosse abbastanza semplice da costruire e facile da utilizzare per venire incontro alle necessità dell’apicoltura africana. L’archetipo ha origine in Grecia, dove già nel ‘600 esistevano degli alveari dai quali era possibile estrarre i favi, malgrado essi fossero integralmente realizzati dalle api dell’alveare; erano semplicemente dei cesti chiusi superiormente da apposite barrette di legno (top bar) sotto le quali le api costruivano i favi di cera.

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Disegno di Sir George Wheler  di un alveare greco a barrette superiori.

Dall’evoluzione di questa arnia nacque, qualche secolo dopo, la Kenya top bar hive (KTBH) che oggi è una delle arnie più impiegate ed apprezzate in Africa, ma anche una delle più utilizzate fra coloro che contestano il metodo attuale di fare apicoltura. È un’arnia a sviluppo orizzontale, senza melario, quindi, dalla forma trapezoidale.

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Il cardine  di questa arnia è proprio la sua forma, con i lati che hanno una pendenza interna che evita che le api attacchino i favi alle pareti laterali, permettendo l’estrazione dei favi. Questi sono attaccati alle barrette (top bar) che, come nell’arnia a cesta di origine greca, vanno a chiudere superiormente l’arnia. Per invogliare le api a costruire i loro favi proprio nel centro della barretta, è necessario disporre un avviamento, ovvero una escrescenza, che può essere di cera (es. 2 – 3 cm di foglio cereo) o realizzata con una fresatura del legno a T con la gamba, cerata o non cerata, estremamente ridotta  oppure semplicemente attraverso un cordino immerso nella cera, attaccato alla barretta prima che la cera si solidifichi.

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Favo della top bar del progetto”potere allo sciame”. Fotografia di Ivan Previsdomini, 2015

Il punto di forza di questa arnia, che la rende davvero interessante per coloro che vogliono fare apicoltura in modo semplice, senza velleità di ricavarvi il reddito principale della propria vita, è l’estrema facilità costruttiva e l’economicità. Infatti può essere agevolmente autoprodotta a partire da legni di scarto ed è possibile produrre miele rinunciando a molte delle attrezzature necessarie quando si usano arnie tradizionali.  Per la raccolta del miele si utilizzerà il torchio e oltre al miele si avrà a disposizione anche molta cera (circa 3 kg ogni 100 kg di miele prodotto) con la quale è possibile realizzare pregiate vernici o profumate candele.

Sia che si scelga l’arnia Warré che la KTBH, si avrà anche la sensazione di allevare le api seguendo la loro naturale inclinazione, senza avere l’assillo della produzione. Le api sembreranno anche ringraziarci per la scelta regalandoci una sorprendente docilità; il che permette di limitare le precauzioni necessarie ogni qual volta si dovranno aprire per una visita. Diventano, quindi,  ideali se si vogliono disporre vicino alla propria abitazione o nell’orto.

 

Articolo di Marco Valentini pubblicato il 14 marzo 2013 sul sito Bioapi