di Alessandro Scassellati

Il PNRR destina una consistente dose di risorse finanziarie – 5,7 miliardi – agli interventi squisitamente agricoli e fa rientrare a pieno titolo il settore agroalimentare in moltissime misure trasversali, facendo schizzare il budget che investe il mondo agricolo a oltre 50 miliardi. Ma, l’agricoltura “sostenibile” prefigurata dalla Missione 2 “Rivoluzione verde e transizione ecologica” del PNRR è un’agricoltura industriale razionalizzata e produttrice più di energia (bio-metano e fotovoltaico) che di cibo, molto diversa dall’agricoltura che la Commissione Europea ha cercato di disegnare con i suoi ultimi documenti strategici “Dal produttore al consumatore” e “Strategia dell’UE sulla Biodiversità per il 2030” (che pure vengono citati nel PNRR). Basta dire che nel PNRR non si parla di agricoltura biologica, agroecologia, biodiversità agricola, benessere animale, fertilità del suolo, ruolo dell’agricoltura nella gestione del territorio e agricoltura di piccola scala basata sulla comunità e in grado di garantire condizioni di lavoro dignitose agli agricoltori e ai braccianti. Tutti temi che invece per la Commissione sono alcuni dei pilastri centrali su cui costruire un nuovo modello di agricoltura resiliente e sostenibile per il futuro, garantendone la competitività.

L’agricoltura industriale è insostenibile

L’agricoltura industriale sfrutta le risorse naturali disponibili del nostro pianeta in modo insostenibile: la strategia di sostituire il lavoro umano con macchinari agricoli, agrochimica ed energia fossile si è trasformato in un vicolo cieco in tempi di cambiamenti climatici, crescente inquinamento (di suolo, aria e acqua), degrado ambientale, distruzione degli habitat, pressione demografica, crescita dell’urbanizzazione, riserve petrolifere in diminuzione, deforestazione e risorse naturali sovrasfruttate.

Così com’è oggi il sistema alimentare non è sostenibile e non può soddisfare i bisogni di cittadini e ambiente. L’agricoltura intensiva è una delle principali cause della perdita di biodiversità e del cambiamento climatico.[1] Un terzo delle emissioni di gas serra proviene dalla produzione agricola industriale e le Nazioni Unite, in un rapporto pubblicato nel 2020, parlano di perdita di biodiversità globale a livelli “senza precedenti e in accelerazione”.[2] Il settore agricolo è responsabile del 10,3% delle emissioni di gas a effetto serra dell’UE. Quasi il 70% di esse proviene dal settore dell’allevamento[3] e consiste di gas a effetto serra diversi dalla CO2 (metano e protossido di azoto). Inoltre, circa il 70% della superficie agricola totale è destinato alla produzione animale.[4]

Secondo il rapporto “Feeding the problem” (2019) di Greenpeace circa 3,5 milioni di aziende agricole hanno cessato l’attività tra il 2005 e il 2013, con un calo del 26% (da 14,2 a 10,7 milioni) nell’Unione Europea. Questo calo è stato più accentuato nel settore zootecnico (-32%, quasi 3 milioni in numeri assoluti). La riduzione ha interessato soprattutto le piccole e medie aziende, mentre le grandi, che intercettano il grosso dei contributi della Politica Agricola Comune (PAC),[5] sembrano prosperare e hanno aumentato di 10 milioni le proprie “unità di bestiame”, arrivando a 94 milioni (nelle più piccole la quota si è dimezzata e ora supera di poco il milione). Considerando solo i bovini, la UE alleva 23 milioni di mucche e il latte è il singolo prodotto agricolo più importante prodotto nel continente, rappresentando circa il 15% di tutta la produzione agricola.

La UE nuota nel latte e i produttori sono bloccati in un circolo vizioso di sovrapproduzione che ha costretto i prezzi molto al di sotto del costo di produzione del latte e ha spinto migliaia di piccoli allevatori fuori dal mercato. Questa crisi è stata innescata da tre fattori – la fine delle quote latte nel 2015 (in vigore dal 1984), il divieto russo sulle importazioni alimentari dell’UE (la Russia importava dai Paesi UE il 13% del latte esportato, il 32% dei formaggi e il 24% del burro prodotti) e il crollo dei prezzi del petrolio (che ha fatto contrarre la domanda di latte, formaggio e burro nei Paesi petroliferi) – e la Commissione Europea ha continuato a sostenere il settore con infusioni di miliardi di euro per coprire le perdite degli allevatori. L’abbandono delle quote nazionali di produzione del latte, un sistema che aveva stabilizzato il mercato europeo per decenni, avrebbe dovuto consentire agli agricoltori di rivolgersi gradualmente al mercato aperto e di far crescere le loro attività. Invece, i grandi allevatori hanno iniziato a produrre oceani di latte, abbattendo prezzi e margini di profitto.

Per alimentare milioni di animali con fieno, colza, rape, soia, mais e girasoli, viene destinato il 71% di tutta la superficie agricola dell’UE – terreno utilizzato per coltivare colture – terreno coltivabile – nonché pascoli per la produzione di foraggi o di pascoli -, mentre solo il restante 29% produce per l’alimentazione umana.

Agli allevamenti intensivi nel 2017 la PAC ha destinato dai 28,5 (69%) ai 32,6 (79%) miliardi di euro (tra il 18 e il 20% del budget annuale della UE), secondo meccanismi che favoriscono le aziende di maggiori dimensioni. Gli agricoltori sono pagati soprattutto in base agli ettari che coltivano, per cui chi controlla più terra riceve più soldi. In questo modo il 20% delle aziende agricole europee riceve l’80% dei sussidi. Erano gli allevatori di 4 Paesi – Germania, Francia, Spagna e Regno Unito – che sommavano più della metà dei capi bestiame allevati nel territorio dell’Unione (il 54% dei bovini, il 50% dei suini e il 54% di ovini e caprini). Ai loro allevamenti intensivi sono connessi problemi di inquinamento – emissioni di anidride carbonica, ammoniaca, protossido di azoto, metano nell’aria, nell’acqua e nel terreno – e di antibiotico-resistenza che hanno ricadute sulle persone. Il protossido di azoto viene emesso dall’uso eccessivo di fertilizzanti artificiali e da fonti organiche come il letame animale e ha un effetto riscaldante 300 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. I livelli di protossido di azoto nell’atmosfera sono superiori del 20% rispetto ai tempi preindustriali, con la maggior parte di tale aumento proveniente dall’agricoltura.

D’altra parte, l’eccesso di nutrienti – in particolare azoto e fosforo – nell’ambiente, dovuto a un uso eccessivo e al fatto che non tutti i nutrienti utilizzati in agricoltura sono efficacemente assorbiti dalle piante, costituisce un’altra importante causa di inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua, nonché degli impatti climatici, e provoca la diminuzione della biodiversità nei fiumi, nei laghi, nelle zone umide e nei mari.

La Francia, il Paese del foie gras e dei 246 formaggi evocati da De Gaulle, è la prima potenza agricola d’Europa (73 miliardi di euro nel 2018, davanti ai 56 della Germania e ai 51 dell’Italia) e gli agricoltori francesi sono i più grandi beneficiari degli aiuti della PAC (9 miliardi all’anno), ma l’agricoltura francese attraversa una triplice crisi:[6]

  • economica: gli addetti diminuiscono ogni anno, intorno al 2% (erano 448 mila nel 2018); guadagnano in media 1.250 euro al mese e (almeno i grandi) sopravvivono solo grazie agli aiuti europei;
  • politica: per la profonda spaccatura tra aree metropolitane e “la Francia periferica[7] delle aree rurali, centri minori, piccole città deindustrializzate che ha contribuito in modo determinante alla nascita del movimento di rivolta popolare dei gilet gialli, sorto nei ronds-point lungo le strade che connettono questi territori alle aree metropolitane;
  • filosofica: per l’emergere di un forte movimento di opinione contrario agli allevamenti intensivi (la ferme des mille vaches, la fattoria delle mille vacche, nata nel 2009 a Drucat, vicino ad Abbeville) e all’agricoltura industriale.

Secondo un recente rapporto pubblicato dall’International Panel of Experts on Sustainable Food Systems (IPES), oggi nell’Unione Europea l’agricoltura industriale genera una perdita di 970 milioni di tonnellate di suolo ogni anno, l’11% dei terreni è interessato da erosione alta o moderata ed entro il 2030 gli allevamenti saranno responsabili del 72% delle emissioni di metano e protossido di azoto di tutto il continente. A tutto questo si aggiunge la dipendenza dall’estero. L’UE è il principale importatore ed esportatore di prodotti agroalimentari e il più grande mercato mondiale di prodotti ittici. Il 31% della terra necessaria per soddisfare la domanda alimentare di 450 milioni di cittadini comunitari si trova fuori dall’Europa. In altre parole, l’Europa sta esternalizzando sempre più l’impronta ecologica dei suoi sistemi alimentari.

Effetti esacerbati dal fatto che, ogni anno, circa il 20% del cibo prodotto nell’UE viene sprecato e che anche l’obesità è in aumento. Oltre la metà della popolazione adulta è attualmente in sovrappeso,[8] il che contribuisce a un’elevata prevalenza di patologie legate all’alimentazione (tra cui vari tipi di cancro) e ai relativi costi sanitari. Nel complesso i regimi alimentari europei non sono in linea con le raccomandazioni nutrizionali nazionali e l’opzione più sana non è sempre quella più facilmente disponibile. Se i regimi alimentari europei fossero conformi alle raccomandazioni nutrizionali, l’impronta ambientale dei sistemi alimentari sarebbe notevolmente ridotta.

Secondo il rapporto Farming for Failure pubblicato da Greenpeace nel settembre 2020, nel 2018, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati accurati dalla FAO, il bestiame nelle aziende agricole dell’UE (incluso il Regno Unito) era responsabile dell’equivalente di circa 502 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno, principalmente attraverso il metano che rilasciano. Questo, a fronte dei 656 milioni di anidride carbonica delle auto e dei furgoni europei nello stesso anno.

Ma, quando vengono calcolate le emissioni indirette di gas ad effetto serra, utilizzando metodi consolidati per stimare la deforestazione e i cambiamenti nell’uso del suolo associati alla produzione dei mangimi per animali, le emissioni annuali totali sono equivalenti a 704 milioni di tonnellate di anidride carbonica. La produzione di carne e latticini dell’UE è aumentata del 9,5% tra il 2007 e il 2018, un aumento che si è tradotto in un incremento delle emissioni annuali del 6%, pari a circa 39 milioni di tonnellate (l’equivalente alla messa su strada di 8,4 milioni di nuove auto). Se tali aumenti continuano, l’UE ha poche possibilità di adempiere ai suoi obblighi di ridurre i gas a effetto serra ai sensi dell’Accordo sul clima di Parigi.[9]

Nell’Unione Europea, come in molte altre parti del mondo, la produzione, la trasformazione, la vendita al dettaglio, l’imballaggio e il trasporto di prodotti alimentari contribuiscono significativamente all’inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua e alle emissioni di gas a effetto serra, oltre ad avere un profondo impatto sulla biodiversità. I sistemi alimentari sono una delle principali cause dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale. Vi è l’impellente necessità di ridurre la dipendenza da pesticidi e antimicrobici,[10] ridurre il ricorso eccessivo ai fertilizzanti, potenziare l’agricoltura biologica e agroecologica, migliorare il benessere degli animali[11] e invertire la perdita di biodiversità.

La Commissione Europea spinge verso un’agricoltura biologica e agroecologica

Nel pieno della prima fase della pandemia da CoVid-19, il 20 maggio 2020, nell’ambito del Green Deal europeo proposto dalla presidente Ursula von der Leyen – che ha l’ambizione di rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050, definendo una nuova strategia di crescita sostenibile e inclusiva per stimolare l’economia, migliorare la salute e la qualità della vita delle persone, prendersi cura della natura e non lasciare indietro nessuno -, la Commissione Europea ha pubblicato due documenti molto significativi ed innovativi che delineano una visione politica strategica decennale per la transizione verso un’agricoltura basata su pratiche sostenibili:

In sostanza, questi due documenti sono due pilastri della strategia sulla sostenibilità al 2030 della Commissione Europea che prevede di valorizzare la biodiversità e di riformare il settore agroalimentare nell’ambito del Green Deal europeo. La Commissione ha posto come obiettivi una riduzione del 50% dell’uso dei fitorfarmaci in agricoltura, del 20% dei fertilizzanti, del 50% dei consumi di antibiotici per gli allevamenti e l’acquacoltura e un incremento al 25% delle superfici coltivate a biologico, oltre all’ulteriore estensione dell’etichetta d’origine sugli alimenti. Bruxelles punta anche a raggiungere una quota di almeno il 30% delle aree rurali e marine europee protette, e a trasformare il 10% delle superfici agricole in aree ad alta biodiversità. Fissando per l’Unione nel suo complesso obiettivi prioritari come il benessere degli animali, la riduzione (“ottimizzazione”) dell’uso di pesticidi e fertilizzanti, e la protezione dell’ambiente, la Commissione ha l’ambizione di far in modo che l’UE possa rivestire un ruolo determinante nella definizione degli standard globali nella transizione verso un sistema alimentare sostenibile.

La crisi del coronavirus ha dimostrato quanto siamo tutti vulnerabili e quanto sia importante ristabilire l’equilibrio tra attività umana e natura” – ha dichiarato il vicepresidente esecutivo della Commissione Europea Frans Timmermans, responsabile dell’attuazione degli obiettivi del Green Deal – “I cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità sono un chiaro e attuale pericolo per l’umanità. Al centro del Green Deal le strategie di Biodiversità e Farm to Fork puntano a un nuovo e migliore equilibrio tra natura, sistemi alimentari e biodiversità; proteggere la salute e il benessere dei nostri cittadini e allo stesso tempo aumentare la competitività e la resilienza dell’UE. Queste strategie sono una parte cruciale della grande transizione che stiamo intraprendendo”.

Le strategie indicate dalla Commissione non sono vincolanti di per sé. Tuttavia, indicano le linee guida per futuri atti legislativi da concordare con Consiglio e Parlamento europeo, mentre i Paesi membri, nel momento in cui implementano norme e leggi o quando devono allinearsi a politiche comunitarie già esistenti (come la Politica Agricola Comune), sono vincolati a rispettare gli obiettivi stabiliti dalla Commissione. D’altra parte, la strategia Farm to Fork prevede un finanziamento di 20 miliardi l’anno tra fondi UE, nazionali e privati. Inoltre, la transizione sarà sostenuta attraverso l’assistenza tecnica e finanziaria di strumenti dell’UE già esistenti, come i fondi di coesione e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR), il cui bilancio, per il periodo 2021-2027, ammonta a 95,5 miliardi di euro. Al fine di accelerare e facilitare la transizione e garantire che tutti gli alimenti immessi sul mercato dell’UE diventino sempre più sostenibili, la Commissione formulerà una proposta legislativa per un quadro per un sistema alimentare sostenibile entro la fine del 2023. Tale quadro promuoverà la coerenza delle politiche a livello dell’UE e nazionale, integrerà la sostenibilità in tutte le politiche in ambito alimentare e rafforzerà la resilienza dei sistemi alimentari.

Gli obiettivi indicati dalla Commissione, almeno nelle intenzioni, dovrebbero infondere anche la PAC per il periodo 2021-2027. La Commissione Europea ha infatti fissato questi e altri obiettivi generali, ma ogni Stato potrà adattare la politica al contesto nazionale mettendo a punto singoli Piani Strategici Nazionali. In ogni caso, la Commissione avrà la responsabilità di verificare che tali Piani siano sufficientemente ambiziosi da consentire di centrare gli obiettivi generali dell’UE. In ogni caso, la Commissione elaborerà con gli Stati membri un piano d’azione per la gestione integrata dei nutrienti al fine di contrastare l’inquinamento da nutrienti alla fonte e aumentare la sostenibilità del settore zootecnico. La Commissione collaborerà inoltre con gli Stati membri al fine di estendere l’applicazione di tecniche di fertilizzazione di precisione e pratiche agricole sostenibili, in particolare nei settori critici dell’allevamento intensivo del bestiame e della trasformazione dei rifiuti organici in fertilizzanti rinnovabili.

Riguardo alla questione dell’enorme impatto che ha l’allevamento intensivo, le soluzioni prospettate dalla Commissione appaiono deboli rispetto all’obiettivo della sostenibilità: l’agevolazione dell’immissione sul mercato di additivi per mangimi sostenibili e innovativi e la possibilità di introdurre norme dell’UE volte a ridurre la dipendenza da materie prime per mangimi critiche (ad esempio soia coltivata su terreni disboscati) promuovendo le proteine vegetali coltivate nell’UE e materie prime per mangimi alternative quali gli insetti, le materie prime marine (ad esempio le alghe) e i sottoprodotti della bioeconomia (ad esempio gli scarti del pesce). Inoltre, la Commissione riesaminerà la normativa in materia di benessere degli animali, compresa quella sul trasporto e sulla macellazione degli animali, al fine di allinearla ai più recenti dati scientifici, ampliarne l’ambito di applicazione, renderne più semplice l’applicazione e, in ultima analisi, garantire un livello più elevato di benessere degli animali. La Commissione prenderà anche in considerazione opzioni per l’etichettatura relativa al benessere degli animali per una migliore trasmissione del valore lungo la filiera alimentare.

La strategia Farm to Fork

La strategia Farm to Fork è stata studiata per trasformare il sistema alimentare europeo, rendendo più sostenibile sotto diversi aspetti e riducendo il suo impatto sui Paesi terzi. Le reazioni alla strategia sono state generalmente positive, soprattutto per gli ambiziosi obiettivi che si pone e per l’approccio globale che la caratterizza. La strategia Farm to Fork tocca molti aspetti della filiera, dall’agricoltura fino al modo in cui vengono etichettati gli alimenti. La strategia propone anche alcune misure per facilitare l’accesso al cibo sano e sostenibile, sia dal punto di vista economico sia da quello fisico. Le istituzioni pubbliche, come le scuole e gli ospedali, dovranno rispettare standard più rigorosi in materia di appalti pubblici per la fornitura dei pasti. Anche le aziende dovranno adottare misure per ridurre il proprio impatto ambientale e rivedere l’offerta di alimenti seguendo le linee guida per una dieta sana e sostenibile.

È la prima volta che l’Unione Europea cerca di progettare una politica alimentare che proponga misure e obiettivi che coinvolgono l’intera filiera alimentare, dalla produzione al consumo, passando naturalmente per il trasporto, la distribuzione e la commercializzazione, per mirare ad un impatto ambientale neutro o positivo. L’obiettivo di fondo è rendere i sistemi alimentari europei più sostenibili di quanto lo siano oggi, preservando e ripristinando le risorse terrestri, marine e di acqua dolce da cui il sistema alimentare dipende, per contribuire a mitigare i cambiamenti climatici e adattarsi ai loro effetti, proteggere i terreni, il suolo, l’acqua, l’aria, la salute delle piante e la salute e il benessere degli animali e invertire la perdita di biodiversità. Ogni Stato membro dell’UE dovrà seguirla, adottando norme a livello nazionale che consentano di contribuire a raggiungere gli obiettivi stabiliti dell’UE. I Paesi membri godranno di eventuali misure di sostegno aggiuntive nel corso dell’implementazione della strategia.

La strategia Farm to Fork rappresenta il tentativo dell’Unione Europea di buttare il cuore oltre l’ostacolo e lanciarsi nell’avventura del cambiamento dell’agricoltura nella logica della sostenibilità. Essa prevede:

  • una riduzione del 50% dell’utilizzo dei fitofarmaci/pesticidi e del 20% dei fertilizzanti, entro il 2030, prevedendo un rafforzamento delle disposizioni in materia di difesa integrata e la promozione di un maggiore utilizzo di metodi alternativi sicuri per proteggere i raccolti da organismi nocivi e malattie (ad esempio, attraverso la rotazione delle colture, il diserbo meccanico, l’uso di pesticidi contenenti sostanze attive biologiche)
  • un taglio del 50% dei consumi di antibiotici per gli allevamenti e l’acquacoltura.
  • un aumento del 25% delle superfici coltivate a biologico.
  • un’ulteriore estensione dell’etichetta d’origine e dei valori nutritivi degli alimenti.

La Commissione riconosce anche che sistemi alimentari sostenibili dipendono anche dalla sicurezza sementiera e dalla diversità delle sementi. Gli agricoltori devono avere accesso a una gamma di sementi di qualità di varietà vegetali adattate alle pressioni esercitate dai cambiamenti climatici. La Commissione adotterà misure volte a facilitare la registrazione delle varietà di sementi, anche per l’agricoltura biologica, e a garantire un più agevole accesso al mercato per le varietà tradizionali e per quelle adattate localmente.

Inoltre, la Commissione riconosce che il mercato degli alimenti biologici è destinato a continuare a crescere e che l’agricoltura biologica deve essere promossa ulteriormente perché “ha effetti positivi sulla biodiversità, crea posti di lavoro e attrae giovani agricoltori, e i consumatori ne riconoscono il valore”. Per questo la Commissione presenterà un piano d’azione sull’agricoltura biologica. Ciò aiuterà gli Stati membri a stimolare la domanda e l’offerta di prodotti biologici, garantirà la fiducia dei consumatori e promuoverà la domanda mediante campagne promozionali e appalti pubblici verdi. Questo approccio contribuirà a raggiungere l’obiettivo di almeno il 25% della superficie agricola dell’UE investita a agricoltura biologica entro il 2030, con anche un aumento significativo dell’acquacoltura biologica. L’agricoltura biologica, insieme all’agroecologia e ad altre pratiche sostenibili come l’agricoltura di precisione, il sequestro del carbonio nei suoli agrari e l’agroforestazione, sono definiti dei “regimi ecologici” dalla Commissione. Gli Stati membri e la Commissione dovranno garantire che tali regimi siano adeguatamente finanziati e attuati nei piani strategici della PAC.

Secondo la Commissione, tutti gli attori della filiera alimentare devono fare la loro parte per assicurarne la sostenibilità. Gli agricoltori, i pescatori e i produttori del settore dell’acquacoltura devono trasformare i loro metodi di produzione in modo più rapido e sfruttare al meglio le soluzioni basate sulla natura, sulle tecnologie, sul digitale e sullo spazio per conseguire migliori risultati climatici e ambientali, aumentare la resilienza ai cambiamenti climatici e ridurre e ottimizzare l’uso di fattori di produzione. Soluzioni richiedono investimenti dal punto di vista umano e finanziario, ma promettono anche rendimenti più elevati creando valore aggiunto e riducendo i costi.

Un esempio di nuovo modello di business verde, auspicato dal documento Farm to Fork è il sequestro del carbonio da parte di agricoltori e silvicoltori. Le pratiche agricole che eliminano la CO2 dall’atmosfera contribuiscono all’obiettivo della neutralità climatica e dovrebbero essere ricompensate attraverso la PAC o altre iniziative pubbliche o private. Una nuova iniziativa dell’UE per il sequestro del carbonio nei suoli agrari (carbon farming) nell’ambito del patto per il clima promuoverà questo nuovo modello di business, che offre agli agricoltori una nuova fonte di reddito e aiuta altri settori a decarbonizzare la filiera alimentare. Come annunciato nel piano d’azione per l’economia circolare (CEAP),[12] la Commissione elaborerà un quadro normativo per la certificazione degli assorbimenti di carbonio basato su una contabilizzazione del carbonio solida e trasparente al fine di monitorare e verificare l’autenticità degli assorbimenti.

Anche la bioeconomia circolare presenta un potenziale ancora largamente non sfruttato per gli agricoltori e le loro cooperative. Secondo la Commissione, ad esempio, le bioraffinerie avanzate che producono biofertilizzanti, mangimi proteici, bioenergia e sostanze biochimiche offrono opportunità per la transizione verso un’economia europea a impatto climatico zero e la creazione di nuovi posti di lavoro nella produzione primaria. Gli agricoltori dovrebbero sfruttare le possibilità di ridurre le emissioni di metano provenienti dall’allevamento del bestiame sviluppando la produzione di energia rinnovabile e investendo in digestori anaerobici per la produzione di biogas da rifiuti e residui agricoli, come il letame. Le aziende agricole sono inoltre potenzialmente in grado di produrre biogas da altre fonti di rifiuti e residui, come l’industria alimentare e delle bevande, le acque nere, le acque reflue e i rifiuti urbani. Le case rurali e i capannoni sono spesso ideali per il collocamento di pannelli solari. La Commissione intraprenderà azioni volte ad accelerare la diffusione sul mercato di queste e altre soluzioni per l’efficienza energetica nei settori agricolo e alimentare a condizione che tali investimenti siano realizzati in modo sostenibile e senza compromettere la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare o la biodiversità, nell’ambito delle iniziative e dei programmi per l’energia pulita.

Per centrare gli obiettivi della strategia occorrono certamente investimenti in ricerca e innovazione, ma non solo. C’è bisogno di migliorare i servizi di consulenza, bisogna formare nuovi tecnici, occorre saper gestire ed elaborare dati, servono nuove competenze ed è fondamentale saper condividere la conoscenza.

La Strategia dell’UE sulla Biodiversità per il 2030

Pochi mesi prima della pubblicazione della Strategia un virus patogeno frutto di un rapporto distorto con la natura (distruzione degli habitat e perdita di biodiversità), dell’incontro tra foreste, agricoltura industriale, città e metropoli globali (dove ormai vive quasi il 60% della popolazione totale e si consumano oltre il 70% delle risorse alimentari) ha stravolto la vita quotidiana di miliardi di persone. La pandemia da CoVid-19 ci ha insegnato che per essere sana e resiliente una società deve dare alla natura lo spazio di cui ha bisogno, quanto mai sia urgente intervenire per proteggere e ripristinare la natura. Il coronavirus ci sta facendo prendere coscienza dei legami che esistono tra la nostra salute e la salute degli ecosistemi, oltre a dimostrare la necessità di adottare catene di approvvigionamento e modi di consumo sostenibili che non forzino i limiti del pianeta. Tutti questi aspetti evidenziano che il rischio di insorgenza e diffusione delle malattie infettive aumenta con la distruzione della natura. Per rafforzare la nostra resilienza e prevenire la comparsa e diffusione di malattie future è perciò fondamentale proteggere e ripristinare la biodiversità e il buon funzionamento degli ecosistemi.

La natura versa in uno stato critico. Le cinque principali cause dirette della perdita di biodiversità – cambiamenti dell’uso del suolo e del mare, sfruttamento eccessivo delle risorse, cambiamenti climatici, inquinamento e specie esotiche invasive – stanno facendo rapidamente scomparire l’ambiente naturale. Gli spazi verdi sono cancellati da colate di cemento, le riserve naturali scompaiono e il numero di specie a rischio di estinzione non è mai stato così alto nella storia dell’umanità. Negli ultimi 40 anni la fauna selvatica del pianeta si è ridotta del 60 % a causa delle attività umane e quasi tre quarti della superficie terrestre ha subito alterazioni che hanno relegato la natura in un angolo sempre più ristretto.[13]

La crisi della biodiversità e la crisi climatica sono intrinsecamente legate. I cambiamenti climatici, attraverso siccità, inondazioni e incendi boschivi, accelerano la distruzione dell’ambiente naturale, che a sua volta, insieme all’uso non sostenibile della natura, è uno dei fattori alla base dei cambiamenti climatici. Tuttavia, se le crisi sono legate, lo sono anche le soluzioni. È la natura, alleato vitale nella lotta ai cambiamenti climatici, che regola il clima, e le soluzioni basate su di essa – come la protezione e il ripristino delle zone umide, delle torbiere e degli ecosistemi costieri, o la gestione sostenibile di zone marine, foreste, pascoli e terreni agricoli – saranno determinanti per la riduzione delle emissioni e l’adattamento ai cambiamenti climatici. L’impianto di alberi e la creazione di infrastrutture verdi ci aiuteranno ad attenuare il calore in città e mitigare gli effetti delle catastrofi naturali.

La perdita di biodiversità e il collasso degli ecosistemi sono tra le minacce principali che l’umanità dovrà affrontare nel prossimo decennio; sono una minaccia anche per le fondamenta dell’economia e si prevede che i costi dell’inazione, già alti, aumenteranno. Si stima che dal 1997 al 2011 i cambiamenti nella copertura del suolo abbiano causato perdite pari a 3.500-18,500 miliardi di euro l’anno in servizi ecosistemici a livello mondiale e che il degrado del suolo sia costato 5.500-10.500 miliardi di euro l’anno. La perdita di biodiversità riduce le rese agricole e le catture ittiche, aumenta le perdite economiche dovute alle inondazioni e altre catastrofi, e ci priva di potenziali nuove fonti di medicinali.

La Strategia della Commissione prova a definire il modo in cui l’Europa può contribuire ad invertire la perdita di biodiversità. Come primo obiettivo si prefigge di riportare la biodiversità in Europa sulla via della ripresa entro il 2030, in linea con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e con gli obiettivi dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Oltre ad affrontare le cinque cause principali della perdita di biodiversità, delinea un quadro di governance rafforzato inteso a colmare le restanti lacune, assicura l’attuazione completa della legislazione dell’UE e concentra tutti gli sforzi in corso. Riconoscendo che per proteggere e ripristinare la natura le regole da sole non bastano, la Strategia è all’insegna dell’iniziativa e dell’incentivo, nello spirito e nelle azioni che prospetta; in quanto tale richiederà la partecipazione fattiva dei cittadini, delle imprese, delle parti sociali e della comunità della ricerca e della conoscenza, come pure forti partenariati tra il livello locale, regionale, nazionale ed europeo.

Per poter riportare la biodiversità sulla via della ripresa entro il 2030, la Strategia propone di intensificare la protezione e il ripristino della natura, estendendo la rete europea di zone protette ed elaborando un piano ambizioso di ripristino della natura. In questo spirito, nell’UE dovrebbe essere protetto almeno il 30% della superficie terrestre e il 30% del mare, vale a dire almeno il 4 % in più della terra e il 19 % in più del mare rispetto a oggi.[14] Almeno un terzo delle zone protette dovrebbe esserlo rigorosamente, vale a dire il 10% della superficie terrestre dell’UE e il 10% dei suoi mari. Nell’ambito di questo approccio, sarà fondamentale definire, mappare, monitorare e proteggere rigorosamente tutte le foreste primarie e antiche ancora esistenti nell’UE.

A fine di disporre di una rete naturalistica transeuropea che sia davvero coerente e resiliente, sarà inoltre importante creare corridoi ecologici che impediscano l’isolamento genetico, consentano la migrazione delle specie e preservino e rafforzino l’integrità degli ecosistemi. In tale contesto, è opportuno promuovere e sostenere la cooperazione transfrontaliera tra gli Stati membri, anche attraverso la cooperazione territoriale europea.

Oltre a proteggere la natura mantenendola allo stato in cui si trova oggi, per invertire la perdita di biodiversità la Strategia mira alla realizzazione di un piano di ripristino della natura (a partire dagli ecosistemi degradati) e che limiti l’impermeabilizzazione del suolo e l’espansione urbana e contrasti l’inquinamento e le specie esotiche invasive.

L’ambizione della Strategia è “riportare la natura nei terreni agricoli”. Gli agricoltori sono i custodi delle terre e, in quanto tali, svolgono un ruolo essenziale nel preservare la biodiversità: sono tra i primi a risentire delle conseguenze della sua perdita, ma anche tra i primi a beneficiare del suo ripristino. È grazie alla biodiversità che possono fornire alimenti sicuri, sostenibili, nutrienti e a prezzi accessibili nonché assicurarsi il reddito necessario per sviluppare e far prosperare la loro attività.

Al tempo stesso, “certe pratiche agricole sono tra le prime cause del declino della biodiversità”. Per questo è importante “lavorare di concerto con gli agricoltori per sostenere e incentivare la transizione verso pratiche completamente sostenibili” quali l’agricoltura di precisione, l’agricoltura biologica, l’agroecologia, l’agrosilvicoltura, il prato permanente a bassa intensità e norme più rigorose in materia di benessere degli animali. Indicatori essenziali della salute dei sistemi agroecologici, gli uccelli e gli insetti presenti sui terreni agricoli, in particolare gli impollinatori, sono di vitale importanza per la produzione agricola e per la sicurezza alimentare. È imperativo invertirne l’allarmante tendenza alla diminuzione. Per lasciare agli animali selvatici, alle piante, agli impollinatori e ai regolatori naturali dei parassiti lo spazio di cui hanno bisogno, è urgente destinare almeno il 10% delle superfici agricole ad elementi caratteristici del paesaggio con elevata diversità, ad esempio fasce tampone, maggese completo o con rotazione, siepi, alberi non produttivi, terrazzamenti e stagni, tutti elementi che concorrono a intensificare il sequestro del carbonio, prevenire l’erosione e l’impoverimento del suolo, filtrare l’aria e l’acqua e sostenere l’adattamento al clima. Gli Stati membri dovranno tradurre l’obiettivo UE del 10 % a una scala geografica inferiore per garantire la connessione tra gli habitat, in particolare utilizzando gli strumenti e i piani strategici della PAC, in conformità con la strategia Farm to Fork, e attuando la direttiva Habitat. I progressi verso l’obiettivo saranno costantemente monitorati e, se necessario, ricalibrati per attenuare le ripercussioni negative sulla biodiversità, la sicurezza alimentare e la competitività degli agricoltori.

Secondo la Commissione, l’agroecologia è in grado sia di fornire alimenti sani senza alterare la produttività, sia di aumentare la biodiversità e la fertilità del suolo e ridurre l’impronta della produzione alimentare. L’ agricoltura biologica, in particolare, offre un grande potenziale sia per gli agricoltori che per i consumatori: è un settore che non solo crea posti di lavoro e attrae i giovani agricoltori, ma offre anche il 10-20 % di posti di lavoro in più per ettaro rispetto alle aziende agricole tradizionali e crea valore aggiunto per i prodotti agricoli. Per sfruttare al massimo questo potenziale, entro il 2030 almeno il 25 % dei terreni agricoli dell’UE devono essere adibiti all’agricoltura biologica. La Commissione presenterà un piano d’azione per l’agricoltura biologica, che aiuterà gli Stati membri a stimolare l’offerta e la domanda di prodotti biologici; alimenterà inoltre la fiducia dei consumatori per mezzo di campagne promozionali e appalti pubblici verdi.

Occorre aumentare il ricorso alle misure di sostegno all’agroforestazione nell’ambito dello sviluppo rurale, per sfruttare le grandi potenzialità offerte da questa pratica a beneficio della biodiversità, le persone e il clima. È altresì necessario invertire la tendenza all’erosione della varietà genetica, ad esempio facilitando l’uso di colture e razze tradizionali: ne deriverebbero benefici anche per la salute grazie a un’alimentazione più variata e nutriente. La Commissione sta valutando l’opportunità di rivedere le norme di commercializzazione delle varietà tradizionali al fine di contribuire alla loro conservazione e al loro uso sostenibile; intende inoltre adottare misure volte a facilitare la registrazione delle varietà di sementi, anche per quanto riguarda l’agricoltura biologica, e ad agevolare l’accesso al mercato per le varietà tradizionali e adattate alle condizioni locali.

Arginare il consumo di suolo e ripristinare gli ecosistemi del suolo sono due degli obiettivi della Strategia. Il suolo, uno degli ecosistemi più complessi e diversificati, è un habitat a tutti gli effetti, dimora di una varietà straordinaria di organismi che regolano e controllano servizi ecosistemici essenziali quali la fertilità, il ciclo dei nutrienti e la regolazione del clima. Il suolo è una risorsa non rinnovabile estremamente importante, vitale per la nostra salute e quella dell’economia, così come per la produzione di alimenti e nuovi farmaci.

L’Unione Europea subisce conseguenze ambientali ed economiche ingenti dal degrado del suolo, che ha tra le sue cause principali una cattiva gestione delle terre, ad esempio a ragione della deforestazione, il pascolo eccessivo, le pratiche agricole e forestali non sostenibili, le attività di costruzione e l’impermeabilizzazione del suolo. La perdita di terreni fertili a causa del consumo di suolo e dell’espansione urbana non si arresta. Se associati ai cambiamenti climatici, gli effetti dell’erosione e delle perdite di carbonio organico immagazzinato nel suolo diventano sempre più evidenti. Anche la desertificazione è una minaccia sempre più concreta nell’UE.

È quindi indispensabile intensificare gli sforzi per proteggere la fertilità del suolo, ridurne l’erosione e aumentare la materia organica che vi è contenuta, ed è auspicabile farlo adottando pratiche sostenibili di gestione del suolo. Servono passi avanti sostanziali anche su altri fronti: il censimento dei siti contaminati, il ripristino dei suoli degradati, la definizione delle condizioni che ne determinano il buono stato ecologico, l’introduzione di obiettivi di ripristino e il miglioramento del monitoraggio della qualità del suolo.

Per affrontare tali questioni in modo organico e contribuire a onorare gli impegni unionali e internazionali intesi a raggiungere la neutralità in termini di degrado del suolo, nel 2021 la Commissione aggiornerà la strategia tematica dell’UE per il suolo.[15] Anche il piano d’azione per l’inquinamento zero di aria, acqua e suolo, che la Commissione adotterà nel 2021, verterà su questi temi.

Altre misure previste dalla Strategia dell’UE sulla Biodiversità 2030 includono: foreste più estese, più sane e più resilienti, con l’impianto di almeno 3 miliardi di alberi supplementari; soluzioni a somma positiva per la produzione di energia (bioenergia); ripristinare il buono stato ecologico degli ecosistemi marini; ripristinare gli ecosistemi di acqua dolce, ristabilendo gli ecosistemi di acqua dolce, le funzioni naturali dei fiumi e lo scorrimento libero di almeno 25 mila km di fiumi; inverdire le zone urbane e periurbane; ridurre l’inquinamento; controllo delle specie esotiche invasive

Passi avanti con qualche rammarico

Le strategie sulla Biodiversità 2030 e Farm to Fork rappresentano l’occasione per intraprendere quel percorso di trasformazione di cui abbiamo bisogno per creare sistemi alimentari sostenibili e per proteggere l’ambiente, la salute e naturalmente i produttori. Nelle strategie vengono affrontati temi fondamentali come la promozione dell’agroecologia, il miglioramento delle abitudini alimentari e la necessità di impegnarsi in un consumo minore, e al tempo stesso di migliore qualità, di carne. In particolare, la strategia Farm to Fork è il primo tentativo dell’Unione Europea di creare una politica globale che ruoti attorno al cibo. Rappresenta l’opportunità di mettere in moto il cambiamento di cui abbiamo assoluto bisogno per costruire sistemi alimentari sostenibili e proteggere l’ambiente, i contadini e la salute.

Un rammarico c’è e riguarda l’inclusione, nella strategia Farm to Fork, del concetto di nuovi OGM e delle nuove biotecnologie, nonostante quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea nel 2018 che equipara nuovi e vecchi OGM,[16] e senza aver ancora definito delle regole precise a riguardo. Le nuove tecniche biotecnologiche di editing genomico – le cosiddette New Breeding Techniques (Nbt) o “nuove tecniche di miglioramento genetico[17] – potranno essere prese in considerazione solo “a condizione che siano sicure per i consumatori e l’ambiente apportando al tempo stesso vantaggi alla società nel suo complesso”, in quanto potrebbero “accelerare il processo di riduzione della dipendenza dai pesticidi”.[18]

Inoltre, la riduzione del 50% dell’utilizzo dei pesticidi non è un obiettivo sufficiente a frenare l’estinzione degli impollinatori, che ha raggiunto livelli senza precedenti e che mette a grave rischio il nostro sistema alimentare (più del 75 % dei tipi di colture alimentari nel mondo dipendono dall’impollinazione animale).

Soprattutto, sarebbe stato necessario che gli obiettivi della strategia Farm to Fork e della strategia per la Biodiversità fossero stati integrati nella PAC 2021-2017 e che quindi questa avesse contrastato la perdita dell’agricoltura su piccola scala, basata sulla comunità, e garantito condizioni di lavoro dignitose per gli agricoltori e i lavoratori agricoli. Purtroppo, nell’ottobre 2020 Parlamento e Consiglio Europeo hanno messo insieme proposte per la PAC ancora rivolte a massimizzare la produzione e i profitti dell’agricoltura industriale, slegando l’erogazione di gran parte dei sussidi da obiettivi ambientali. Non è stato messo fine al meccanismo del pagamento per ettaro – una misura auspicata dalla Commissione[19] – che avrebbe potuto essere sostituito con finanziamenti e sostegni mirati per promuovere il passaggio all’agroecologia.

[1] Tale è il tasso di declino che i rischi posti dalla perdita di biodiversità dovrebbero essere considerati alla stessa stregua di quelli del cambiamento climatico. Dal 1970 l’umanità ha spazzato via il 60% di mammiferi, uccelli, pesci e rettili, portando i massimi esperti del mondo (cfr. il Living Planet Index, prodotto per il WWF dalla Zoological Society di Londra) ad avvertire che l’annientamento della fauna selvatica è ora un’emergenza che minaccia la civiltà umana (si stima che fino a 1 milione di specie siano a rischio di annientamento, molte entro decenni), perché sta distruggendo gli habitat naturali (per trasformarli in terre agricole e/o urbanizzate) che sostengono la rete della vita, che ha richiesto miliardi di anni per la sua formazione, da cui dipende in ultima analisi per l’aria pulita, l’acqua e tutto il resto. Sappiamo che i cambiamenti che stiamo provocando nell’ecosfera ci stanno facendo diventare più vulnerabili. Nel caso di piante e animali domestici, ad esempio, la mancanza di biodiversità nei geni ci sta lasciando meno protezione contro le malattie e meno opzioni per le piante e gli animali da riproduzione che si adattano meglio al cambiamento climatico. Il declino delle popolazioni di insetti è un altro esempio chiave: dove gli impollinatori non sono disponibili, gli effetti a cascata sugli ecosistemi possono rapidamente diventare catastrofici. Una volta che queste popolazioni selvatiche sono state sradicate o gravemente esaurite, abbiamo pochi modi per cercare di riportarle indietro, e non possiamo sostituire i “servizi ecosistemici” – l’impollinazione delle piante di cui abbiamo bisogno per il cibo – che forniscono.

[2] https://ipbes.net/news/Media-Release-Global-Assessment

[3] Agenzia europea per l’ambiente (2019), Annual European Union greenhouse gas inventory 1990-2017 and inventory report 2019. Le cifre non comprendono le emissioni di CO2 derivanti dall’uso del suolo e dal cambiamento di uso del suolo.

[4] 39,1 milioni di ettari coltivati a cereali e semi oleosi e 70,7 milioni di ettari di prati su 161 milioni di ettari di terreni agricoli (nell’UE-27, Eurostat 2019).

[5] La PAC è una delle politiche più vecchie dell’Unione Europea. È stata lanciata nel 1962, dopo anni di difficoltà e di crisi alimentari, con l’obiettivo di aumentare la produzione agricola, garantire la sicurezza alimentare, assicurare una qualità della vita dignitosa agli agricoltori e stabilizzare i mercati mantenendo prezzi ragionevoli per i consumatori. Oggi, la PAC pesa per quasi il 40% dell’intero bilancio dell’UE e viene messa a punto dalla Commissione Europea. Ogni sette anni viene rinnovata: la nuova versione entrerà in vigore nel 2021 e dovrà far fronte alle sfide che oramai si sono palesate di fronte a noi, cioè rispettare i target di sostenibilità, salvaguardare la biodiversità e proteggere l’ambiente. Se da un lato questa politica ha contribuito a ridurre la dipendenza dell’Europa dalle importazioni e ad accrescere l’importanza dell’UE sui mercati internazionali, grazie a un approccio orientato all’esportazione, dall’altro ha creato una situazione di sovrapproduzione, cioè di eccesso di offerta, e ha favorito l’agricoltura e gli allevamenti intensivi gestiti da grandi aziende.

[6] Montefiori S., Guerra santa per le mucche francesi, Il Corriere della Sera, 28 aprile 2019:14-15.

[7] Guilluy C., No society. La fin de la classe moyenne occidentale, Flammarion, Paris, 2018; La France périphérique. Comment on a sacrifié les classes populaires, Flammarion, Paris, 2015.

[8] Eurostat, Obesity rate by body mass index (Tasso di obesità per indice di massa corporea), https://ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/sdg_02_10/default/table?lang=en.

[9] La legge europea sul clima fissa l’obiettivo di un’Unione climaticamente neutra nel 2050. La Commissione ha portato l’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra al 55 % rispetto ai livelli del 1990.

[10] La resistenza antimicrobica legata all’uso eccessivo e inadeguato degli antimicrobici nell’assistenza sanitaria umana e animale causa ogni anno, secondo le stime, la morte di 33 mila persone nell’UE/SEE e genera notevoli costi sanitari. Cassini et al. (2019), “Attributable deaths and disability-adjusted life-years caused by infections with antibiotic-resistant bacteria in the EU and the European Economic Area in 2015: a population-level modelling analysis” (Decessi e anni di vita corretti per disabilità dovuti a infezioni da batteri resistenti agli antibiotici nell’UE e nello Spazio economico europeo nel 2015: analisi tramite modellizzazione a livello di popolazione), in Lancet Infect Dis., Vol.19, Issue 1, pagg. 55-56.

[11] Il miglioramento del benessere degli animali si traduce nel miglioramento della salute degli animali e della qualità degli alimenti e in una minore necessità di medicinali, e può contribuire a preservare la biodiversità.

[12] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni “Un nuovo piano d’azione per l’economia circolare – Per un’Europa più pulita e più competitiva” [COM(2020) 98 final].

[13] La specie homo sapiens rappresenta solo lo 0,01% di tutti gli esseri viventi, ma ha causato la perdita dell’83% di tutti i mammiferi selvatici e della metà delle piante. La perdita di aree selvagge è la causa principale dell’attuale estinzione di massa della fauna selvatica. L’espansione combinata delle aree urbane (in crescita di più del 100% dal 1992), dove ormai vive il 56% della popolazione del pianeta, e dei terreni destinati all’agricoltura e zootecnia intensiva, sta mettendo a rischio l’esistenza del 62% delle specie animali già inserite nella lista dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). Secondo il Living Planet Report 2020 del WWF e della Zoological Society di Londra, le popolazioni globali di mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili sono crollate in media del 68% tra il 1970 e il 2016. I ricercatori dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services dell’ONU parlano addirittura di un’imminente “sesta estinzione di massa” per un milione su otto di specie, soprattutto insetti, “la colla in natura”. Ciò significa che esiste un grande disequilibrio a livello di sistema, tanto che il panel internazionale sui cambiamenti climatici (IPCC) stima che in ciascuna delle tre decadi da qui al 2050 la produzione agricola calerà del 2%, mentre la domanda di cibo crescerà del 14% (con circa 10 miliardi di persone), mentre la produzione di frutta, verdura e legumi è già diminuita del 22% negli ultimi due decenni.

[14] Ultime statistiche UE-27 (base di dati europea delle zone protette designate a livello nazionale) v. 2019, e insieme di dati Natura 2000 ‘fine 2018’. Oggi il 26 % della superficie terrestre dell’UE è già protetto, di cui il 18 % nel quadro di Natura 2000 e l’8 % da regimi nazionali; per quanto riguarda il mare, è protetto l’11 %, di cui l’8 % nel quadro di Natura 2000 e il 3 % nell’ambito di misure nazionali supplementari. Si fa presente che i progetti eolici in mare saranno ammessi se conformi alla legislazione in materia di ambiente e protezione della natura.

[15] Strategia tematica per la protezione del suolo, COM(2006) 231 definitivo.

[16] La sentenza esecutiva della Corte europea di Giustizia che nel 2018 ha stabilito che “Gli organismi ottenuti mediante tecniche o metodi di mutagenesi devono essere considerati come OGM ai sensi dell’articolo 2, punto 2, della direttiva 2001/18…”. La definizione di OGM nel Protocollo di Cartagena – lo stesso che introduce il Principio di precauzione garante della tutela della nostra salute, del nostro ambiente e della biodiversità – si basa su chiari e inconfutabili criteri. Tutte le nuove tecniche di genome editing prevedono l’introduzione di segmenti digenoma e producono organismi modificati che soddisfano tali criteri. Tuttavia, queste tecniche comportano spesso anche mutazioni indesiderate (off target), rese sempre più evidenti e documentate dalla letteratura scientifica. Infine, i protocolli di genome editing coinvolgono normalmente le stesse tecniche base dei “vecchi” OGM, responsabili di delezioni e riarrangiamenti non voluti.

[17] Sistemi che usano tecniche di cisgenesi e genome editing – come le procedure Crispr usate in medicina e chimica e che sono valse il Nobel a Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier. In sostanza, nelle piante non si agisce su una alterazione inserendo genomi estranei come avviene negli OGM, ma si interviene cambiando alcune lettere del DNA già presenti in modo da migliorare il prodotto.

[18] C’è da dire che per un Paese come l’Italia, l’approvazione delle Nbt costituirebbe un grave attacco alla filiera agroalimentare, al principio di precauzione e ai diritti dei contadini. Dop, Igp, vini di qualità, produzione biologica, prodotti dei territori, varietà locali e tradizionali potranno essere contaminate da prodotti ottenuti con le nuove tecniche che non saranno etichettati come OGM e quindi saranno irriconoscibili per i consumatori. Ne risulterà che coloro che vorranno prodotti “GMO-free” garantiti, per esempio nell’export, rifiuteranno anche i prodotti etichettati come “non-OGM” per mancanza di certezze. L’approvazione degli Nbt favorirebbe un ristrettissimo numero di imprese, la maggior parte grandi multinazionali, che vogliono ottenere il controllo delle filiere agroalimentari ed intendono mettere agricoltori e consumatori davanti al fatto compiuto, con prodotti brevettati, non tracciabili e privi di certezze qualitative.

[19]La necessità di migliorare l’efficienza e l’efficacia dei pagamenti diretti tramite il livellamento e l’erogazione più mirata del sostegno al reddito agli agricoltori che ne hanno bisogno e contribuiscono al conseguimento degli obiettivi ambientali, anziché a soggetti e imprese che semplicemente possiedono terreni agricoli, rimane un elemento essenziale della futura PAC. La capacità degli Stati membri di garantire questo aspetto dovrà essere attentamente valutata nei piani strategici e monitorata durante tutto il processo di attuazione.

Testo pubblicato su transform! italia il 12/05/2021

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