D. Oggi si confrontano diversi modelli di agricoltura, quali sono quelli che a suo avviso risulteranno utili oltre che necessari per sfamare il pianeta?

R: L’agricoltura che sfama e che sfamerà l’umanità è quella industriale, è quella intensiva, è l’agricoltura che utilizza appieno l’innovazione tecnica e scientifica degli ultimi 150anni, quindi le varietà migliorate, i fertilizzanti, i diserbanti, i cosiddetti pesticidi. E questa è l’agricoltura che oggi sfama l’umanità ed è questa l’agricoltura che dovrà inevitabilmente sfamare l’umanità perché allontanandoci dalla piccola Italia e pensiamo a città come Città del Messico, il Cairo, le città indiane con decine di milioni di abitanti, è chiaro che non possono che essere nutrite con una forte agricoltura ed una forte logistica capace di portare gli alimenti, il cibo in questi ambienti. L’umanità vive grazie all’agricoltura intensiva: noi stessi quando entriamo in un supermercato a fare la spesa troviamo la storia dell’agricoltura e dell’innovazione dei prodotti vegetali e dei prodotti animali in pochi metri quadrati e a prezzi accessibili.

Non c’è una questione di “cibo spazzatura” ma casomai di “dieta spazzatura”. Non è tanto il cibo ma casomai come viene composta la dieta perché un hamburger è una cosa ottima, così come un hot dog, è meglio senz’altro della pizza.

Noi ci vantiamo della pizza ma la pizza non si digerisce, anche se è fatta con tutti i crismi, ma ce la prendiamo con un hamburger che altro non è una polpetta di carne che viene consumata in tutte le parti del mondo. La comunicazione del valore della biodiversità è un aspetto fondamentale ed è da conservare perché è lì che si trovano quei geni che con il miglioramento genetico potranno essere utili. Sono quei prodotti che possiamo permetterci il lusso di consumare, ovviamente non tutti i giorni, delle varietà che altrimenti non potrebbero essere coltivate perché sono poco produttive o perché richiedono troppe cure, e che ci ricordano il passato.

D: in Valtellina, nonostante gli sforzi, non riusciamo ad avere né semente né derivati legati all’agro biodiversità sufficienti rispetto alla domanda. Come fare per aumentare le produzioni?
R: Da questo punto di vista rispetto al grano saraceno e alla segale credo che la risposta possa venire dai “gemellaggi” territoriali. Se i panettieri della Valtellina vogliono offrire del pane di segale e non è ipotizzabile produrre in loco tutta la segale necessaria, allora si possono fare dei gemellaggi con quelle zone di produzione anche extra europee perché non c’è niente di male a dichiarare la provenienza. Ad esempio, noi facciamo attualmente si producono le pesche sciroppate a Monate secondo un’antica tradizione locale ma oggi le pesche a Monate non vengono più coltivate e allora ho proposto che i produttori di Monate si gemellino ci siamo gemellati con un comune dell’Oltrepò mantovano che possa fornire ci fornisce le pesche con le caratteristiche adatte che vogliamo noi e che grazie alla logistica diventano pesche sciroppate.

L’importante è raccontare storie vere e non mistificare la realtà. Anche la riscoperta delle pietanze del passato può essere rivisitata aprendo delle finestre su delle altre agricolture, non soltanto in una visione provinciale ma in una visione globale, dove per globalità si intende riconoscere a tutte le agricolture del passato e del presente il ruolo che hanno.

Il melo che noi coltiviamo arriva dal Kazakistan, è arrivato attraverso la Persia nel III secolo A.C.; il pesco arriva dalla Cina, e così via. Questo non vuol dire che la nostra storia agricola non abbia dato dei contributi importanti perché le piante quando sono uscite dai loro aerali di domesticazione spesso hanno acquisito carattere che non avevano in origine. In Israele, ad esempio, coltivano il pesco che non ha bisogno di freddo per fiorire; le mele americane ovviamente non sono autoctone, così come la Gala arriva dalla Nuova Zelanda, la Granny Smith che arriva dall’Australia.

Attraverso qualsiasi prodotto agricolo si può raccontare la storia della pianta agraria, la storia dell’agricoltura, e avvicinare culturalmente il consumatore alle problematiche dell’agricoltura. Così come il tenere certe razze di bovini anche se non tirano più gli aratri e che però per millenni ci hanno consentito di sopravvivere e adesso sono destinate all’estinzione. Questo è un privilegio che dobbiamo assumerci sia per godere della nostra storia e sia per mantenere un patrimonio che dal punto di vista genetico può essere utile per il futuro.

Non si tratta di proporre un modello produttivo che non è sostenibile, come recita la Bibbia nella creazione facciamo parte di questo creato e dobbiamo trovare il nostro posto nella natura. Da occidentali non possiamo essere un po’ così egoisti e di concederci dei lussi sapendo però che questi lussi ce li possiamo concedere solo noi.


osvaldo faillaIl Prof. Osvaldo Failla è curatore, con il Prof. GianPiero Fumi,  del volume “Gli agronomi in Lombardia: dalle cattedre ambulanti ad oggi“.  Nel corso dell’intervista abbiamo discusso di agricoltura del passato, del presente e futura. 

Altri riferimenti 

Le Cattedre Ambulanti in Agricoltura: il sapere “sbriciolato”– Prof. GianPiero Fumi


D: oggi si parla molto di agricoltura sostenibile, biologica, naturale, etc. Che cosa ne pensa?
R: Ci sono delle questioni legate alla effettiva eco – compatibilità e sostenibilità dell’agricoltura biologica e organica perché che cosa è naturale e che cosa è artificiale? Il fertilizzante di sintesi è artificiale e non lo usiamo, il fertilizzante organico lo usiamo perché è naturale. Metà delle proteine che noi produciamo derivano da fertilizzanti di sintesi, quindi metà dell’umanità è fatta da azoto di sintesi.

Noi non viviamo né nella naturalità né nell’artificialità, viviamo nel “domestico”, nel coltivato, nella storia, nella dimensione culturale che non è né una cosa né l’altra. L’uomo vive in una terza dimensione e di conseguenza questa dicotomia è insensata, non è né naturale né artificiale, storicamente è quella del domestico, del coltivato.

I paleontologi ci dicono che i primi sintomi di umanità vengono rilevati perché trovano scheletri di ominidi che sono sopravvissuti grazie al fatto che venivano aiutati dagli altri componenti del gruppo, quindi l’umanità nasce quando ci si libera dalla natura, quando sopravvive anche quello che da solo non ce la farebbe perché c’è un sentimento di solidarietà. La storia dell’umanità è la storia per affrancarsi dalla natura. Noi non dobbiamo tornare al naturale che non esiste, anche perché avendo distrutto gran parte delle risorse naturali pochi sarebbero i luoghi dove potremmo vivere come cacciatori e raccoglitori e ci dovremmo ridurre a poche migliaia di individui invece noi siamo tanti.

Il sistema funziona perché possiamo fare della grande agricoltura industriale e intensiva liberando anche risorse per questo grande album del nostro passato che può essere molto ampio perché possiamo ripercorre tutta la storia dell’agricoltura. D’altra parte nessuna pianta che coltiviamo è autoctona: il frumento arriva dal medio oriente, i legumi dall’oriente, il pero viene dal Caucaso, il fico arriva dal Caspio, l’ulivo stesso è stato addomesticato in Palestina, il grano saraceno arriva dalla Cina e dai Balcani. E’ proprio nel riconoscere questa dimensione storica che vi è la ricchezza dell’autoctonia. Questa è la prospettiva a cui guardo che è molto più ricca di un localismo che non esiste storicamente.

Le viticolture che sono sempre state le punte di diamante dell’economia agricola. Sono state trainate dal commercio verso i centri abitati, verso i luoghi di consumo. Dove c’è innovazione è perché ci sono mercati, perché ci si confronta. I formaggi locali sono sopravvissuti – a parte il Grana Padano che era oggetto di commercio in tutta Europa fin dall’origine, che è nato in un contesto di un’agricoltura che si rinnova con i monaci Cistercensi, con le bonifiche della bassa padana, con la produzione di latte – perché erano comunque commercializzati lungo le vie di comunicazione per cui la produzione era diretta sui mercati. Certo, ne beneficiavano anche le popolazioni locali per l’autoconsumo, ma verosimilmente si mangiavano i formaggi venuti male per vendere quelli venuti bene. Per cui l’agricoltura che celebriamo come tradizionale è frutto e si è mantenuta attraverso un’agricoltura commerciale, un’agricoltura che i contadini subivano perché dovevano accontentare la parte padronale e produrre quello che loro volevano.

Noi abbiamo una ricchezza di prodotti enorme e ce li possiamo godere perché spesso arrivano ai supermercati e questo però le uccide.

Dobbiamo portare i consumatori nei luoghi di produzione con il turismo sostenibile, così che il consumatore si renda conto dei contesti ambientali, paesaggistici, culturali, storici dei prodotti, ed è disposto a riconoscere qualcosa in più perché sa che sta dando un contributo a chi svolge questo ruolo di custode.

A pagare qualcosa di più ma non esageratamente di più così come fanno i cultori del Brunello di Montalcino che sono disposti a pagare 60 – 80 Euro la bottiglia solo per motivi di snobismo. I prodotti tipici devono essere fatti per un consumatore “popolare”, per un consumo popolare sapendo che costano un po’ di più perché è più difficile produrli.

D: arriviamo all’esperienza delle Cattedre Ambulanti….
R: A quell’epoca nei trattati universitari di coltivazioni erbacee, di coltivazioni arboree, il modello di agricoltura proposto era sempre quello poli-colturale e di un’azienda che fosse a ciclo chiuso in termini di bilancio della sostanza organica, bilancio dei nutrienti e così via. L’evoluzione seguita dall’agricoltura non era quella immaginata dagli economisti e da coloro che si occupavano di Economia Agraria, perché si immaginava che l’azienda fosse policolturale e in questo modo poteva assorbire la manodopera famigliare, ridurre i rischi legati alle singole colture, avere la zootecnia in modo da consentire di chiudere il ciclo della sostanza organica e di diversificare le produzioni. Tutte le riforme fondiarie avevano questa direzione poi però la storia economica ha preso una via totalmente diversa che non era quella pianificata. Gli sforzi della politica agraria erano indirizzate verso le aziende policolturali mentre l’indirizzo pratico si è indirizzato verso la specializzazione. Specializzazione aziendale e territoriale.
Le Cattedre Ambulanti entrano alla fine dell’800 quando la classe padronale si rende conto che il principale limite allo sviluppo dell’agricoltura era costituito dall’ignoranza dei contadini. Allora loro che avevano studiato all’Università, che conoscono i trattati di agronomia degli enciclopedisti francesi e tedeschi, che sanno dei progressi tecnici decidono di portare la conoscenza tecnica nei campi attraverso l’istruzione degli agricoltori per spiegare come si fa un’agricoltura razionale. Questo innesca il processo di formazione dei Consorzi agrari per gli acquisti collettivi e per la commercializzazione dei prodotti, l’acquisto dei fertilizzanti, quindi portano innovazione, fondano le Casse Rurali, le banche agricole per raccogliere capitali per sostenere l’innovazione.

Però la visione delle Cattedre Ambulanti è quella di un’agricoltura policolturale, mentre la storia dell’agricoltura è stata indipendente dalle attese della stagione delle Cattedre Ambulanti. L’indirizzo di specializzazione delle cattedre è dettato, se prendiamo il caso della Valtellina, perché ci si rende conto che esiste una domanda di mele per cui ci si specializza sul melo. Quando si individua il modello agrario più conveniente nonostante il rischio di impatti ambientali enormi ci si indirizza verso quello. Da qui il grande sviluppo della zootecnia da latte in Lombardia che è frutto di tutta una storia iniziata nel 1200 con i Certosini e che poi arriva a Galbani, Invernizzi, Polenghi lombardo. La specializzazione delle Cattedre Ambulanti non è stata pianificata, è stata subita. Le riforme fondiarie, le bonifiche prevedevano la casa della famiglia contadina con il frutteto, l’orto, la stalla, con il frumento, ma tutto questo è stato spazzato via. Era la riforma agraria basata sulla figura del coltivatore diretto. Così come i romani davano ai veterani una superficie che doveva essere in gradi di mantenere la famiglia, così la riforma agraria istituisce un’azienda capace di mantenere una famiglia di coltivatori diretti.

D: Cattedre ambulanti e innovazione nelle campagne….
R: Le Cattedre Ambulanti sono state un veicolo di innovazione ma lo sviluppo dei sistemi agrari non è stato quello immaginato dalla Cattedre. La Valle Camonica è piena di varietà di melo e di pero che erano state sostenute dalla Cattedra Ambulante per creare un’opportunità di reddito alle famiglie valligiane che tradizionalmente coltivavano questi frutti per poi portarli in città, a Brescia. Questa produzione storica che si fondava su un paio di varietà locali voleva essere rinnovata con varietà più produttive, più pregiate. Adesso queste piante sono considerate testimonianza di un’antica agricoltura mentre in realtà sono testimonianza di un tentativo di innovazione portato dalle Cattedre Ambulanti. Dopodiché la frutticoltura in Valle Camonica non è mai decollata, l’agricoltura in generale è declinata nonostante i tentativi delle Cattedre di portare un’innovazione che consentisse a queste aziende di avere un reddito più certo e più alto.

Il passaggio sulla meccanizzazione portato avanti dalla Cattedre Ambulanti è encomiabile. La stagione delle cattedre Ambulanti è ricca e complessa, noi abbiamo analizzato qualche aspetto in Lombardia tenendo conto che l’Italia è un paese ricco, articolato e di conseguenza le esperienze sono diversificate. C’è una grande letteratura il problema è che i lavori sono stati portati avanti dagli Economisti Agrari che non conosco i meccanismi con cui funziona l’agricoltura e quindi hanno una chiave di lettura parziale. Sulla stagione delle Cattedre Ambulanti GianPiero Fumi è lo storico che le ha studiate a fondo.

D: oltre le Cattedre Ambulanti, che cosa significa oggi ragionare su una scuola per gli agricoltori
R: C’è una logica di sussidiarietà nella vostra proposta di Scuola Ambulante di Agricoltura, c’è spazio per tante iniziative a condizione che si collochino nel segmento opportuno altrimenti creano rumore. Sulla misura del PSR 14.20 con i Bandi che usciranno nel secondo semestre, tra le tante azioni ci sono anche quelle legate alla Formazione.

Se la Scuola Ambulante di Agricoltura è un network si può vedere di irrobustirlo su un progetto specifico con un buon obiettivo per consolidare ulteriormente la rete. Immaginare un approccio a tutto tondo è difficile.

Le Camere di Commercio sembrano aver dimenticato che nell’acronimo c’è anche la A di Agricoltura. Da fare, a parte i terrazzamenti che sono in abbandono, anche se non è detto che i terrazzamenti debbano essere usati solo per la vite, si possano immaginare anche altre utilizzazioni.
La leva del turismo sostenibile, cioè di portare le persone nelle aziende, nei ristoranti, ed educarli raccontando cose vere è il modo per tenere vive queste iniziative. Un progetto che arrivi dal campo fino al tavolo e che generi alcuni menù può essere una soluzione. Scoprire un menù e non il singolo piatto. Un menù che valorizzi le produzioni locali ma anche i gemellaggi. Gemellaggi ad esempio sul grano saraceno o la segale.


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Le Cattedre Ambulanti in Agricoltura: il sapere “sbriciolato”– Prof. GianPiero Fumi

Benvenuti nell’Agricoltura industriale di Alessandro Carucci

Agroecologia e agricoltura biologica di Alessandro Carucci


Fine 🙂