di Alessandro Scassellati, Scuola Ambulante di Agricoltura Sostenibile pubblicata da Transform Italia

L’agricoltura sociale è un grande campo di sperimentazione di nuove pratiche colturali, culturali e relazionali che hanno tutte un forte impatto in termini di sviluppo locale. Si tratta di un movimento sociale magmatico, in continua evoluzione, ancora poco raccontato, che si batte contro il paradigma dell’agricoltura industriale ed esalta tre caratteristiche fondamentali dell’agricoltura mediterranea: la relazionalità, la multifunzionalità e la policoltura. L’agricoltura sociale non va solo considerata una “pratica virtuosa” che ha un grande valore in sé, ma soprattutto come una componente rilevante di un nuovo modello di sviluppo rurale sostenibile e di un nuovo welfare locale partecipato.

L’agricoltura sociale

L’agricoltura sociale (nel mondo anglosassone detta “green care” o “care farming”) è un movimento sociale e politico-culturale, un fenomeno di “economia civile”, in cui le funzioni tipiche dell’impresa agricola, la produzione di cibo (beni agroalimentari, zootecnici e forestali), sono collegate in maniera esplicita allo svolgimento di funzioni di tipo sociale e si intrecciano virtuosamente con il tessuto civile e sociale delle comunità territoriali locali. Come tale rappresenta un ambito di grande interesse almeno da due angolazioni:

  • da quella dell’economia sociale e della diffusione di nuova imprenditorialità no-profit innovativa in agricoltura, in particolare nei contesti rurali periurbani e in quelli più marginali delle cosiddette “aree interne”, ossia le zone montane dell’arco alpino e della dorsale appenninica (circa il 60% del territorio italiano), dove persiste e resiste una piccola agricoltura (contadina e policolturale) non omologata ai modelli convenzionali ed industrialisti (affermatisi in Italia a partire dalla seconda metà del ‘900 e incentivati dalla Politica Agricola Comune dell’Unione Europea) che ha contribuito a conservare saperi locali, valori di mutualità e solidarietà, e capitale sociale che altri territori hanno in gran parte disperso, ma anche dove, da un lato, è particolarmente evidente l’indebolimento della rete dei servizi pubblici, conseguente alla progressiva erosione dei processi di redistribuzione della ricchezza e al persistere di modelli universalistici concepiti per i territori urbani sulla logica delle economie di scala, e dall’altro, il tessuto del terzo settore (cooperazione sociale, associazionismo e volontariato) spesso dimostra di essere particolarmente debole dal punto di vista organizzativo e delle competenze gestionali e progettuali o è addirittura inesistente;
  • da quella della necessaria riprogettazione dei sistemi di welfare e delle reti territoriali di solidarietà e protezione sociale nelle aree rurali, un processo al quale le imprese che praticano l’agricoltura sociale possono a pieno titolo partecipare, divenendo centri di una nuova socialità aperta e al servizio della comunità locale; nodi di reti di un nuovo welfare territoriale, partecipativo, di prossimità o di comunità per il quale l’agricoltura può rappresentare un giacimento di risorse potenzialmente utilizzabili al servizio del benessere bio-psico-sociale complessivo della comunità locale.

Il concetto di agricoltura sociale, dell’utilizzo cioè dell’azienda agricola per il soddisfacimento di bisogni sociali, quali la riabilitazione ed il recupero di soggetti vulnerabili e svantaggiati attraverso l’interazione con animali e piante (terapie “verdi”), l’inserimento lavorativo di soggetti deboli e svantaggiati (inclusione sociale), attività educative e scolastiche (fattorie didattiche, “asili nel bosco”) e così via, ancorché da sempre legato alle attività agricole e alla loro integrazione con il più ampio campo delle attività comunitarie, sta assumendo un nuovo significato alla luce della della crisi e insostenibilità del modello dell’agricoltura industriale, della ricerca di una valorizzazione della multifunzionalità delle aziende agricole (un ruolo che valorizza la loro flessibilità, duttilità e versatilità nel rispondere alle vecchie e nuove esigenze della società producendo non solo beni, ma anche servizi di carattere sociale alla collettività) e della crisi dei tradizionali sistemi di welfare nel rispondere a nuovi bisogni socio-sanitari emergenti.
In questo contesto, si sono andati affermando, a livello locale, in tutta Italia, ma soprattutto nel Mezzogiorno rurale, esempi virtuosi di collaborazione fra realtà locali (aziende agricole, cooperative sociali, comunità che supportano l’agricoltura) ed istituzioni (Aziende sanitarie locali, Dipartimenti di salute mentale, uffici e centri diurni per disabili dei Comuni, scuole, centri anziani, etc.) che fanno intravvedere la possibilità di nuovi modelli organizzativi nella fornitura di servizi essenziali al territorio.

Oggi, ragionare sull’agricoltura sociale nei territori rurali significa ragionare su almeno tre questioni fondamentali:

  • sui temi propri dell’agricoltura sociale – come l’inserimento socio-lavorativo dei soggetti appartenenti alle categorie sociali svantaggiate come migranti, disabili fisici e psichici, tossicodipendenti, carcerati, alcolisti, disoccupati di lunga durata, anziani soli, etc.;
  • sullo sviluppo locale sostenibile e sulla cultura della green society, i cui temi – produzione di coesione sociale, fiducia, capitale sociale, senso civico, cultura della legalità, beni comuni, welfare community, ossia un welfare territoriale e partecipato, sono strettamente connessi con quelli della green e sharing economy;
  • sulla produzione sostenibile di cibo (agricoltura biologica, biodinamica, organico rigenerativa, permacultura), la conservazione di un ambiente naturale biodiverso e, più in generale, sulle diverse dimensioni della green economy, ossia sulla promozione della cultura e degli eventi identitari, l’uso delle piattaforme digitali social per creare comunità di pratiche virtuali e circuiti di commercializzazione dei prodotti a “filiera corta business to consumer, la produzione di “beni pubblici” come il recupero e la manutenzione del paesaggio storico e degli antichi borghi per creare nuova residenzialità (in alternativa all’urbanizzazione di massa) e circuiti per il turismo rurale, la gestione dei rifiuti, la valorizzazione (non intensiva) delle energie rinnovabili, e nuova ricerca e innovazione legata ai processi produttivi esistenti.

Chi sono i soggetti dell’agricoltura sociale?

Le prime esperienze agricoltura sociale finalizzate all’inserimento occupazionale in agricoltura di persone vulnerabili e a rischio di marginalizzazione sono nate in Italia a metà degli anni ’70 del secolo scorso, con le sperimentazioni portate avanti dai movimenti (cattolici e della sinistra alternativa) per la costituzione di cooperative giovanili (sulle terre abbandonate e sottoutilizzate private, pubbliche e demaniali) e per l’abolizione dei manicomi (legge Basaglia 180/1978), dalla lotta alla tossicodipendenza e dalla denuncia della condizione carceraria.
Studenti, giovani disoccupati, operatori sociali e sanitari hanno scoperto il valore dell’agricoltura, costituito cooperative, occupato terre incolte e si sono insediati in borghi e casali abbandonati (fondando “comunità” e “comuni”). Queste esperienze, laddove si sono sviluppate, si sono rivelate tra le risposte più efficaci al disagio sociale, perché hanno permesso percorsi di riabilitazione e inserimento lavorativo in grado di riconoscere dignità alle persone coinvolte e di tener conto delle esigenze delle loro famiglie. Esperienze pratiche che dall’inizio degli anni ’60 avevano dimostrato possibile il superamento del manicomio attraverso la creazione di servizi territoriali, hanno trovato nelle cooperative giovanili agricole uno sbocco vitale per assicurare una prospettiva dignitosa alle persone coinvolte.
Solo negli ultimi due decenni, però, si è registrato un crescente interesse per le funzioni sociali presenti in aziende agricole da parte sia del mondo agricolo (da parte di quegli imprenditori agricoli interessati a rafforzare la propria autonomia attraverso la multifunzionalità) sia delle ricerca scientifica, che ha cominciato a produrre evidenze sull’efficacia d’impiego di pratiche di agricoltura sociale (induzione di processi di autostima e di recupero del senso di sé), sia di operatori sanitari e dei servizi sociali che vedono nell’agricoltura sociale una risposta efficace e finanziariamente sostenibile rispetto alle esigenze vecchie e nuove di terapia, protezione, recupero/reinserimento e coesione sociale della popolazione, anche in aree rurali più svantaggiate.
Allo stesso tempo, negli ultimi due decenni è stato anche rimesso in discussione il rapporto fra ambiente rurale ed urbano, rivalorizzando l’ambiente rurale periurbano come elemento qualificante del tessuto sociale cittadino, come luogo di integrazione (ad esempio, attraverso gli orti sociali) e anche fornitore di servizi sociali e socio-sanitari a tutta la collettività.
A partire dal 2006, la valorizzazione dell’agricoltura sociale è stata indicata tra gli obiettivi da perseguire nei Piani Strategici Nazionali (PSN) elaborati dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (MIPAAF). In diverse regioni, a partire dal 2000 nei Piani di Sviluppo Rurale (PSR) sono state previste misure che consentono di finanziare investimenti nell’impresa agricola volti a realizzare progetti di agricoltura sociale.
Inoltre, nel 2015 è stata approvata la legge nazionale 141 sull’agricoltura sociale che promuove l’agricoltura sociale “quale aspetto della multifunzionalità delle imprese agricole finalizzato allo sviluppo di interventi e di servizi sociali, socio-sanitari, educativi e di inserimento socio-lavorativo, allo scopo di facilitare l’accesso adeguato e uniforme alle prestazioni essenziali da garantire alle persone, alle famiglie e alle comunità locali in tutto il territorio nazionale e in particolare nelle zone rurali o svantaggiate” (art. 1). Oltre a definire scopi, ambiti ed attività, la legge ha istituito anche l’Osservatorio sull’agricoltura sociale, nominato con decreto del Mipaaf, che è chiamato a definire le linee guida in materia di agricoltura sociale e assume funzioni di monitoraggio, iniziativa finalizzata al coordinamento delle iniziative a fini di coordinamento con le politiche rurali. Dal 2017, grazie ad un accordo tra Mipaaf e Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile della Presidenza del Consiglio, è possibile svolgere il servizio civile nelle fattorie sociali.

Infine, negli ultimi anni in diverse aree del Mezzogiorno sono stati approvati diversi documenti programmatici, atti di indirizzo e protocolli d’intesa tendenti a sostenere lo sviluppo dell’agricoltura sociale. Ad esempio, in Sicilia si segnalano:

  • il piano strategico di salute mentale della Regione Sicilia fa esplicito riferimento alla collaborazione nei programmi di inserimento lavorativo nelle fattorie sociali;
  • il Distretto socio-sanitario di Agrigento ha pubblicato dei bandi per l’inserimento lavorativo nei quali si fa esplicito riferimento alle fattorie sociali;
  • il protocollo d’intesa per la promozione di centri di agricoltura sociale ha coinvolto gli assessorati all’Agricoltura e alla Salute, l’Azienda policlinico di Palermo, l’Istituto zooprofilattico regionale;
  • è stato istituito un tavolo tecnico sulle fattorie sociali presso l’assessorato regionale alla Famiglia e alle Politiche Sociali con l’obiettivo di promuovere una legge regionale sull’agricoltura sociale.

Sulla base della letteratura, delle scarse (ma crescenti) ricerche, del contributo conoscitivo offerto dalle tre realtà associative esistenti – Associazione della Rete delle Fattorie Sociali (nata nel 2006), Forum Nazionale di Agricoltura Sociale (nata nel 2011) e Associazione Italiana di Bioagricoltura Sociale – BioAS (nata nel 2018) – e di una personale attività di ricerca – azione condotta sia sul campo sia in modo digitale, attraverso la pagina Facebook della Scuola Ambulante di Agricoltura Sostenibile, negli ultimi sette anni, possiamo dire che tre sono le principali tipologie di attori sociali impegnati in percorsi ed esperienze di agricoltura sociale.

  1. Un primo gruppo è composto da cooperative sociali, associazioni del terzo settore ed enti pubblici, fondazionali e religiosi, ossia soggetti generalmente organizzati e strutturati per operare in campo sociale, che negli ultimi anni hanno diversificato il loro settore d’intervento entrando in quello agricolo, perché riconoscono che l’agricoltura è un’attività altamente relazionale, ad alta intensità di lavoro (con prevalenza quindi di attività policolturali orticole, frutticole, viticole, olivicole, vivaistiche e floricole, con anche apicoltura, allevamenti di piccoli animali da cortile, insieme a cavalli e asini per la loro predisposizione a relazionarsi con le persone) e con caratteristiche che richiedono un impegno individuale continuativo (giornaliero e stagionale) e che hanno un rilevante valore terapeutico (rapporto uomo-animali-piante-ambiente naturale, lavoro di gruppo, promozione dell’autostima). Il lavoro agricolo, infatti, ha numerose peculiarità che lo rendono diverso da ogni altro settore produttivo e che possono essere estremamente importanti per soggetti la cui identità è andata perduta o è stata gravemente compromessa:
  • porta diversi benefici a livello psicologico perché, le mansioni da svolgere sono relativamente semplici e varie, non sono ripetitive e comportano un particolare coinvolgimento emotivo attraverso la cura di animali e piante (co-terapia);
  • consente ad una persona di partecipare a tutte le fasi del processo produttivo – dalla semina al raccolto, alla consumazione, alla trasformazione e alla vendita – senza che essa venga “espropriata” dei risultati del proprio impegno e lavoro, come avviene in altri contesti dove l’attività è parcellizzata e ripetitiva e per ciò stesso spesso estraniante;
  • immette una persona direttamente nelle dinamiche economiche di una azienda;
  • rende possibile adeguare i ritmi di lavoro alle possibilità reali delle persone inserite in propedeutica del lavoro o in ergoterapia o terapia occupazionale, percorso riabilitativo che utilizza la valutazione e il trattamento per sviluppare, recuperare o mantenere le competenze della vita quotidiana e lavorativa delle persone con disabilità cognitive, fisiche, psichiche tramite attività;
  • risponde all’esigenza di trasmettere un orizzonte di valori che hanno al centro la vita umana, che proprio a contatto con la terra trova la sua dimensione più autentica;
  • educa al rispetto della natura, dell’ambiente e dell’habitat.

Questa sorta di predisposizione del settore agricolo ad accogliere soggetti che in altri settori avrebbero maggiori difficoltà a poter essere integrati nel mondo del lavoro ha un evidente effetto economico generale positivo, in quanto consente l’inserimento lavorativo di persone che altrimenti resterebbero improduttive. Inoltre, in una fattoria sociale, le attività possono spaziare dalla cura, conservazione e selezione dei semi alla produzione diretta nelle serre e a cielo aperto, alle attività di trasformazione dei raccolti in prodotti “conservati”, al negozio della vendita al dettaglio, al settore commerciale per la vendita all’ingrosso e alla partecipazione ad un progetto delle fattorie didattiche che consentono ad una persona in terapia occupazionale di sperimentarsi su molteplici ruoli e professionalità.
Questo segmento ha ricevuto un forte impulso a partire dalla fine degli anni ’90 grazie alla legge 106/1996 sull’assegnazione dei beni confiscati alla mafia, che ha consentito di riportare questi beni, in particolare terreni ed immobili, ad un utilizzo di interesse collettivo. Un approccio che è stato rafforzato di recente con la “Strategia nazionale per la valorizzazione dei beni confiscati attraverso le politiche di coesione” (legge 232/2016, art. 1, comma 611) e l’assegnazioni di risorse finanziarie pubbliche a supporto. Anche la Fondazione con il Sud ha finanziato bandi mirati per soggetti del terzo settore impegnati in progetti di agricoltura sociale realizzati in terreni confiscati alle mafie.
Sono nate così numerose cooperative sociali siciliane, calabresi, pugliesi e campane (ma anche del Centro e Nord) che coltivano terreni appartenenti a boss della mafia, ‘ndrangheta, camorra e altre organizzazioni criminali. Un’iniziativa importante da molti punti di vista: economico-sociale (il recupero di risorse inutilizzate e la creazione di lavoro per giovani e di ricchezza per il territorio), ma soprattutto civico e culturale, sfidando le mafie sul terreno del controllo del territorio e dell’economia locale, su cui si fonda buona parte del loro potere anche sulla società civile.
Rientrano nelle pratiche di agricoltura sociale anche il ripristino e la valorizzazione dei tenimenti agricoli all’interno degli istituti penitenziari, attività che ha permesso di sviluppare progetti di agricoltura, di zootecnia e di trasformazione all’interno delle strutture carcerarie e di offrire, al contempo, opportunità formative professionali ed occupazionali ai detenuti in misura alternativa, grazie sia alla legge 354/1975 e successive modificazioni sia alla legge 193/2000, più conosciuta come legge Smuraglia, che prevede agevolazioni per cooperative esterne all’organizzazione penitenziaria che assumono detenuti o persone che hanno già scontato la pena. Oltre ad essere un diritto per i detenuti, il lavoro rappresenta un’occasione essenziale per rendere il periodo detentivo una preziosa occasione per acquisire una professionalità poi spendibile una volta cessata la pena. Di fatto, il trattamento penale prevede che le attività agricole possano essere utilizzate, come la altre attività lavorative, per la rieducazione e finalizzate a favorire il reinserimento socio-lavorativo del detenuto una volta scontata la pena.

  1. Un secondo gruppo è composto da un numero crescente di agricoltori convenzionali che si rendono conto che il modello dell’agricoltura industriale non regge più sul piano economico ed ambientale e che loro sono le prime vittime di questa insostenibilità. Sempre più i loro saperi sono espropriati e i loro margini sono schiacciati verso il basso dagli “imperi del cibo”, dai venditori di fitofarmaci, fertilizzanti chimici, pacchetti tecnologici e semi brevettati, dalla Grande Distribuzione Organizzata, dai prezzi fissati dal mercato globale delle commodities agricole.

In alternativa, hanno deciso di puntare sulla qualità piuttosto che sulla quantità e stanno cercando di riconfigurare il loro ruolo di imprenditori in un’ottica di responsabilità sociale ed ambientale anche per cogliere le nuove opportunità di reddito offerte dalla rapida crescita della nicchia di mercato dei consumatori cosiddetti “responsabili”, “etici”, “solidali” e “critici”, ossia di quella componente crescente di consumatori che dimostrano di essere consapevoli circa i doveri sociali di ciascuno anche in quanto consumatore e che nel fare le proprie scelte di acquisto pone attenzione agli effetti e alle influenze che queste scelte possono avere sul benessere di altri soggetti (produttori, lavoratori, cittadini o consumatori, animali e ambiente). Un consumattore che, diversamente dal consumatore-cliente, non si accontenta più di scelte basate solo sul rapporto qualità-prezzo, ma pone attenzione anche al modo in cui un prodotto e un servizio viene realizzato e distribuito e alle fasi del post-consumo, ossia attiva un processo di conoscenza e controllo su tutta la filiera che attribuisce un valore alle componenti di qualità e sostenibilità sociale ed ambientale incorporate nei prodotti.
Pertanto, questi imprenditori agricoli ripensano/ridisegnano le loro aziende in una prospettiva agroecologica, legandole sempre più profondamente alle vocazioni territoriali, agli ecosistemi e paesaggi locali. Recuperano suoli impoveriti perché sovrasfruttati (terreni senza vermi, poveri di materia organica, senza insetti, se non quelli infestanti, senza antagonisti e api impollinatrici). Tornano a lavorare sul terreno, per rigenerarlo, arricchirlo di sostanze organiche (utilizzando compost, letami), cercando di uscire dal circolo vizioso della chimica di sintesi. Riscoprono il valore delle rotazioni, consociazioni, delle semine a spaglio su suolo, dei sovesci (favino, erba medica, soietto e brassicacee). Abbandonano la specializzazione produttiva per riprendere l’agricoltura policolturale. Ripiantano siepi, alberi, arbusti della macchia mediterranea e fiori per attrarre insetti e uccelli. Costruiscono hotel per insetti e per pipistrelli. Recuperano pascoli per allevare animali con il Metodo Nobile, ossia tornando a nutrire gli animali con erbe fresche e fieno, riducendo al minimo l’utilizzo di mangimi e concentrati.
Si aprono alle comunità locali, ai consumatori, alle scuole, ai cittadini, attrezzando fattorie didattiche, mettendo a disposizione del territorio e delle persone che ci vivono le strutture aziendali agrituristiche – ristorazione, strutture per il tempo libero come piscine, attrezzature sportive, servizi di ippoterapia o apiterapia. Di fatto, si riappropriano della logica della multifunzionalità dell’azienda agricola, erogano nuovi servizi per il benessere bio-psico-sociale (la salute) della comunità locale. Diventano dei veri e propri nodi del welfare territoriale.

  1. Un terzo gruppo è composta da un crescente numero di persone con profili culturali urbani/metropolitani: giovani che hanno diplomi universitari (e anche superiori) in un ampio spettro di materie (dalla sociologia/antropologia alle scienze ambientali) e con percorsi lavorativi nei servizi tecnologici o nei settori dell’”intelligenza creativa”, ma anche persone meno giovani con esperienze lavorative nei servizi della consulenza (lavoro autonomo di seconda generazione), nella scuola, nella cooperazione, nel terzo settore e nel socio-sanitario.
    In larga parte sono dei “neorurali”, ossia persone senza un background agricolo specifico o comunque con un legame debole con il settore (anche se in molti casi i nonni erano agricoltori o contadini). Una generazione di “nuovi agricoltori”, in alcuni casi dei “ritornanti” dopo aver fatto un percorso di studi di agronomia, spinti dal desiderio di mettere in pratica i concetti di agricoltura alternativa che hanno studiato.
    Generalmente, sono persone aperte al mondo, alla ricerca di vivere in modi diversi basati su nuove forme di socialità, più autentiche, meno stressanti, più dirette. Sono interessati a sperimentare metodologie e pratiche di una nuova agricoltura agroecologica, non industriale, non chimica. Hanno una forte motivazione personale, perché hanno fatto una scelta personale di vita. Hanno scelto l’agricoltura perché ne hanno colto la dimensione relazionale e per la possibilità di confrontarsi costruttivamente con la natura e ottenerne dei risultati concreti, visibili, dimostrabili e replicabili.
    Pertanto, è assai probabile che la scelta di coltivare la terra e di occuparsi di ambiente e di soggetti deboli sia il risultato di un percorso esistenziale, culturale e politico profondo e non riconducibile a categorie esclusivamente produttivistiche. La scelta di vita tende a prevalere sulle considerazioni, pur presenti, di ordine economico.

Cosa fanno le realtà dell’agricoltura sociale?

L’agricoltura sociale è un grande campo di sperimentazione di nuove pratiche colturali, culturali e relazionali che hanno tutte un forte impatto in termini di sviluppo locale. Si tratta di un movimento sociale magmatico, in continua evoluzione, ancora poco raccontato, che si batte contro il paradigma dell’agricoltura industriale ed esalta tre caretteristiche fondamentali dell’agricoltura mediterranea: la relazionalità, la multifunzionalità e la policoltura.
L’agricoltura sociale può anche essere definita come una pratica di innovazione sociale, in quanto – accanto all’offerta di servizi nuovi in risposta a bisogni poco o male soddisfatti altrove – offre anche percorsi innovativi di costruzione dei servizi stessi, che vedono il coinvolgimento e la partecipazione attiva di più soggetti.

L’agricoltura, oltre alla sua prioritaria funzione di attività economica finalizzata alla produzione di alimenti, ha sempre svolto anche una funzione di carattere sociale. Il modello agricolo familiare che ha storicamente caratterizzato l’agricoltura italiana e che ancora caratterizza l’impresa agricola a conduzione familiare, implica una integrazione tra dimensioni e finalità economico-produttive proprie dell’azienda agricola e quelle di carattere sociale, nei confronti di componenti del nucleo familiare allargato o meno che sia.
Nell’ambito della cosiddetta unità famiglia-azienda, vi è sempre stata un’area, più o meno ampia, di intersezione tra la componente familiare e quella aziendale. Uno spazio nel quale l’azienda agricola e le sua attività hanno svolto e svolgono un ruolo che si può definire di tipo sociale, in particolare facendosi carico dei bisogni di soggetti deboli o vulnerabili (disabili fisici e mentali) presenti all’interno sia della famiglia coltivatrice sia delle comunità rurali di riferimento. Nella società rurale e contadina raramente il disagio psichico o la disabilità fisica si trasformavano in esclusione.
L’agricoltura sociale, quindi, ha le sue radici nelle forme e reti informali di solidarietà e nei valori di reciprocità, gratuità e mutuo aiuto che da sempre caratterizzano il mondo agricolo e le aree rurali: scambio di manodopera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali, scambio di sementi e di informazioni sulle tecniche di coltivazione e allevamento, esperienze consortili per la bonifica e la difesa idraulica, usi civici sui terreni di proprietà collettiva, esperienze cooperative per il lavoro, l’affitto di terreni e la commercializzazione dei prodotti.

Di seguito, proviamo a identificare l’ampio spettro di attività che le realtà dell’agricoltura sociale svolgono:

  • inserimento lavorativo di disabili fisici e mentali e di soggetti svantaggiati (detenuti ed ex detenuti, migranti stranieri, tossicodipendenti, disabili fisici e psichici) generalmente attraverso cooperative sociali di tipo B (costituite ai sensi della legge 381/1991) e accordi con istituzioni (scuole, Dipartimenti di salute mentale, istituzioni carcerarie, tribunali);
  • accudimento di anziani non autosufficienti (preparazione di pasti), accoglienza provvisoria di persone con momentanea difficoltà abitativa o di bambini e donne vittime di violenza; soggiorni periodici per anziani, persone diversamente abili, bambini, giovani e famiglie (turismo sociale);
  • orti sociali, orti scuola, orti per anziani, orti senza barriere (rialzati) per persone con disabilità fisiche;
  • recupero di antiche varietà dell’agrobiodiversità autoctona: cereali (farro, risi, grani, come Senatore Cappelli, Saragolle e Gentil Rosso e Tumminìa), ortaggi, legumi, frutta, ma anche animali (ovini, suini, bovini, caprini, avicoli, asini, etc.). Molti diventano “coltivatori custodi”, si prendono cura delle antiche varietà vegetali ed animali, coltivandole ed allevandole. La logica è che il miglior modo di conservare un seme antico autoctono è seminarlo. Si lavora sulle popolazioni evolutive, insieme a professori universitari come Stefano Beneddetelli, ricercatori come Salvatore Ceccarelli e alla Rete dei Semi Rurali e altre associazioni. Si pratica lo scambio dei semi e si utilizza il Metodo Nobile di allevamento degli animali;
  • gestione di fattorie didattiche, laboratori educativi di orticoltura ed agricoltura per bambini e ragazzi delle scuole del territorio, per arrivare fino agli agriasili e agli “asili nel bosco”;
  • laboratori del gusto, della gastronomia di territorio, con un’attenzione alle sperimentazioni multisensoriali;
  • gestione di agriturismi e agricampeggi con o senza ristorazione (a seconda della forza lavoro disponibile e dell’attenzione che si vuole dedicare alle pratiche agricole);
  • la riabilitazione equestre o ippoterapia, la pet therapy, la zoo-antropologia assistenziale, la terapia orticolturale per soggetti con disagio fisico e mentale e disturbi della sfera psichica, che fondano la propria efficacia su una relazione attiva, e non meramente contemplativa, dell’uomo con la pianta o l’animale, con la natura più in generale. Nella terapia orticolturale o nella pet therapy, sono le piante e gli animali, almeno alcune specie particolarmente adatte, che fungono da “mediatori emozionali”, ossia rappresentano uno strumento per allentare le tensioni, e dei “catalizzatori” dei processi socio-relazionali, diventando “co-terapeuti” nel processo di guarigione. A questi approcci terapeutici si aggiungono anche musicoterapia, coloreterapia e apiterapia;
  • corsi di yoga, di benessere individuale, di crescita personale (utilizzando il concetto del risveglio e il metodo mindfulness), campi estivi per ragazzi e giovani, ma anche laboratori teatrali, di artigianato, di bioedilizia, di autocostruzione (ad esempio, utilizzando paglia, canapa e legno), di gastronomia, di trasformazione e lavorazione delle materie prime (farine/pasta/dolci/biscotti realizzati con la “pasta madre” e il forno a legna; latte/formaggi; frutta/confetture);
  • corsi di giardinaggio, di coltivazione di un orto, di foraging (di riconoscimento delle erbe selvatiche), di potatura organica e rigenerativa, di agricoltura agroecologica (permacoltura, biodinamica, organica e rigenerativa, consociativa), di “agricoltura affettuosa” (oltre la certificazione biolgogica);
  • turismo rurale, attraverso l’organizzazione di passeggiate in campagna, a piedi, in bicicletta a cavallo o con l’asino, con un’attenzione all’offerta di percorsi esperienziali (ad esempio, partendo dalle api e dai servizi ecosistemici che questi insetti erogano; bosco didattico);
  • aziende aperte” (open farm) al territorio e ai cittadini/consumatori, ad esempio, organizzando giornate dedicate alla raccolta diretta dei frutti (olive, frutta, ortive) da parte dei consumatori finali, ma anche eventi musicali, teatrali, presentazione di libri, degustazioni, ristorazione di territorio o tematica. Una “osmosi” con l’ambiente esterno che contribuisce a sensibilizzare il territorio sull’esperienza in corso, che serve a stabilire legami importanti per la sostenibilità nel tempo dell’esperienza. Nei casi di maggiore successo delle fattorie sociali, il territorio, da elemento di vincolo diventa un’opportunità per lo sviluppo del progetto imprenditoriale e sociale;
  • apicoltura sostenibile con arnia orizzontale di tipo africano (top bar), in cui si punta al benessere delle api, più che sulla produzione quantitativa del miele. Le api sono il principale indicatore del benessere ambientale dell’azienda e della validità e sostenibilità del metodo di agricoltura praticato;
  • mercatini agricoli (farmers markets), vendita diretta in azienda, comunità che supportano l’agricoltura (CSA) con forme di azionariato diffuso e impegno volontario dei soci nelle operazioni di coltivazione, Gruppi di acquisto solidale (GAS), Gruppi di acquisto collettivo (GAC) e altre forme organizzative che favoriscono una relazione fiduciaria e un rapporto diretto tra produttore e consumatori;
  • creazione di microfiliere territoriali, che mettono insieme produttori agricoli, piccoli trasformatori, piccoli operatori commerciali e consumatori finali, utilizzando anche i contratti di rete e arrivando a costituire e a fare parte di biodistretti (a Bergamo c’è anche un biodistretto sociale). Uno degli elementi che caratterizza queste esperienze è che il lavoro in rete viene visto come propedeutico alla costruzione di “comunità di pratiche”;
  • cooperative di comunità che si pongono consapevolmente e con un approccio integrato il tema dello sviluppo locale nelle sue diverse articolazioni: agricoltura, agroalimentare, turismo rurale, recupero di sentieri e di tratturi della transumanza, ripristino e manutenzione del paesaggio rurale (terrazzamenti, piccole architetture disperse nelle campagne) e borghi antichi (cercando di applicare i modelli dell’albergo diffuso e del paese albergo), piccoli impianti di energie rinnovabili (fotovoltaico, eolico e biomasse/digestori);
  • trasformazione dei prodotti agricoli (in una logica di microfiliera territoriale): mulini in pietra per le farine; piccoli frantoi oleari; piccoli laboratori aziendali e territoriali per la trasformazione di cereali, latte, frutta, ortaggi, erbe aromatiche (olii essenziali, tisane, infusi);
  • eventi socio-culturali con l’organizzazione di feste dei raccolti (anche inventando la tradizione) e manifestazioni tese a promuovere la cultura della sostenibilità. Sono eventi pensati per rianimare e ridare senso alle forme di convivenza, promuovere convivialità e socialità, riscoprire tradizioni ed identità territoriali, tenere insieme la comunità locale, creando un meccanismo di partecipazione fondato sulla connessione diretta con la terra locale, ridando dignità a questo legame e trasformandolo in qualcosa da cui partire per costruire opportunità di relazione e senso di appartenenza.

La criticità del mercato dei prodotti e servizi dell’agricoltura sociale

Uno degli attuali elementi di debolezza delle esperienze di agricoltura sociale riguarda la questione della vendita dei prodotti e dei servizi realizzati dalle fattorie sociali. In molte di loro, infatti, l’orientamento al mercato è decisamente debole o addirittura assente (molte sono cooperative sociali o altre istituzioni o enti nei quali le capacità imprenditoriali commerciali sono carenti), una situazione che può determinare serie difficoltà nella vendita dei prodotti e servizi realizzati. Ciò accade nonostante che questi prodotti e servizi apparentemente non siano qualitativamente inferiori a quelli ottenuti in aziende tradizionali, anzi in alcuni casi si può riscontrare che si tratta di una qualità eccellente, ottenuta spesso grazie all’applicazione delle tecniche di coltivazione biologiche o biodinamiche.
Le uniche realtà dell’agricoltura sociale che al momento possono contare su un posizionamento di mercato locale e nazionale, grazie al sostegno di alcuni comparti della Coop, sono quelle che utilizzano il brand “Libera terra”, promosso dall’Associazione Libera di don Luigi Ciotti, che riunisce il gruppo di cooperative sociali agricole che hanno avuto in comodato i beni confiscati alle mafie e fanno parte dell’associazione.
Le fattorie sociali potrebbero fare leva sulla caratteristica sociale del processo produttivo, sia per incontrare la domanda dei consumatori più sensibili a queste tematiche, sia in taluni casi per spuntare un prezzo maggiore al fine di riuscire a coprire eventuali maggiori costi delle produzioni, legati alla particolare natura del processo produttivo.
A questo proposito, un tema centrale è rappresentato dall’asimmetria informativa che colpisce i consumatori “responsabili” interessati agli attributi etici dei beni, in quanto questi, riguardando essenzialmente il modo in cui è espletato il processo produttivo, non sono visibili o determinabili al momento della scelta di acquisto né con l’uso stesso del bene, e si configurano quindi come beni o caratteristiche di tipo fiduciario.
Il prodotto finito di una fattoria sociale può essere indistinguibile da altri prodotti del tutto equivalenti, tranne che per la natura etica del processo che lo ha generato. Ciò comporta la necessità di produrre informazione a beneficio dei consumatori e la necessità di stabilire una qualche forma di garanzia che generi fiducia tra le parti e che contribuisca a rendere visibile la “qualificazione etica” dei prodotti delle fattorie sociali. In assenza di questo, i consumatori potrebbero non fidarsi dell’effettiva presenza del contenuto etico dei prodotti e rinunciare ad acquistarli, determinando un vero e proprio fallimento del mercato. L’insufficienza di informazioni specifiche sui prodotti delle fattorie sociali è oggi una delle principali cause che impediscono al consumo etico di crescere secondo il potenziale che deriverebbe dall’interesse dei consumatori.
Una soluzione innovativa a questo problema può fare leva sulla tecnologia delle piattaforme digitali per colmare l’asimmetria informativa e produrre conoscenza sulla base della quale si può instaurare un rapporto di fiducia e costruire una relazione disintermediata. Rendere visibili le fattorie sociali e connotarle come nodi di rete in grado di aggregare contenuti che riguardano le buone pratiche e includere i consumatori. Il trasferimento di conoscenza può riguardare anche i processi di produzione in cui sono impegnate le fattorie sociali e le relative filiere, e avvenire non solo verso i consumatori, ma anche nei confronti di altri produttori agricoli per stimolare l’aggregazione e la riprogettazione territoriale.
Un target potenzialmente molto interessato ai prodotti delle fattorie sociali sono senz’altro i Gruppi di Acquisto (GA), gruppi generalmente informali di consumatori che si organizzano per fare acquisti collettivi, comprando direttamente dalle imprese (evitando quindi qualsiasi intermediazione), e che attribuiscono molta importanza al tema della responsabilità sociale. Tanto da tradurre questo interesse non solo in acquisti concreti di prodotti che si distinguono per questa connotazione, ma che fanno anche di più: generalmente organizzano i loro acquisti, la spesa familiare, in funzione dell’obiettivo di essere consumatori critici e socialmente responsabili. È proprio per questo che si rivolgono preferibilmente ad imprese piccole e radicate sul territorio, rispettose delle della salute (basso o nullo uso di prodotti chimici di sintesi), delle persone (che garantiscono dignitose condizioni lavorative), dell’ambiente (con coltivazioni biologiche, biodinamiche e stagionali) e del territorio (biodiversità vegetale e animale locale, legata alla storia, cultura e tradizione del luogo), con acquisti organizzati collettivamente che sono in prevalenza di generi alimentari.
Questi gruppi rappresentano un vero e proprio sistema di filiera corta, caratterizzato da una stabilità delle relazioni tra acquirenti e fornitori e dalla ricerca di una conoscenza reciproca e di un sempre più stretto rapporto di fiducia (che può consentire anche di programmare insieme strategie di comune interesse come, ad esempio, la ripresa della coltivazione di antiche varietà di colture o l’anticipo al produttore delle spese per le coltivazioni). In Italia esiste una rete nazionale dei Gruppi di Acquisto (Retegas nata nel 1997) che nei suoi documenti ha definito quelle che dovrebbero essere le finalità di un GA, indicandole nel provvedere all’acquisto di beni e servizi cercando di realizzare una concezione più umana dell’economia che faccia leva sul consumo critico.
Inoltre, le fattorie sociali possono incrementare la fornitura di prodotti (a cominciare da ortaggi e frutta di stagione) alle mense scolastiche e ospedaliere del territorio. La legge 141/2015 sull’agricoltura sociale prevede che le istituzioni pubbliche che gestiscono le mense scolastiche ed ospedaliere possono inserire come criteri di priorità per l’assegnazione delle gare di fornitura la provenienza dei prodotti agroalimentari da operatori di agricoltura sociale operanti nel territorio locale.
Infine, considerando la presenza significativa di fattorie sociali attrezzate come agriturismi e come strutture di ospitalità rurale, occorre sviluppare anche una riflessione sulle reali opportunità offerte oggi dallo sviluppo crescente del mercato del turismo rurale e naturalistico sostenibile, che può collegarsi a quell’ospitalità caratteristica delle popolazioni rurali organizzata in termini di “ospitalità diffusa”, ma anche all’offerta enograstronomica di una ristorazione che utilizza i prodotti locali di qualità ed è plasmata sulla tradizione della Dieta Mediterranea che sa utilizzare al meglio le varietà vegetali e le razze animali dell’agrobiodiversità del territorio.

Welfare di comunità e agricoltura sociale nelle aree rurali

Le aree rurali hanno bisogno di ripensare i loro sistemi di welfare (da sempre deboli e inadeguati) per motivi di coerenza con i bisogni sociali e di risorse disponibili. In queste aree, i sistemi di welfare pubblici sono arrivati più tardi e, spesso, secondo modelli nati in contesti urbani, soppiantando le reti di mutuo aiuto e rendendo la vita in questi territori più simile a quella possibile nei contesti urbani, in particolare per quanto riguarda i servizi alla persona. Nelle aree rurali, però, il ruolo dei sistemi dei servizi appare peculiare rispetto a quello che si registra in altre aree.
Nelle campagne è compito del welfare non tanto e non solo di porre riparo ai processi di esclusione generati da uno sviluppo economico ineguale, quanto quello di rigenerare e rinsaldare le comunità locali e renderle vitali, attraenti e coerenti con la nuova domanda di ruralità.
Pertanto, la formula di welfare più adatta per le aree rurali è quella del welfare rigenerativo che ha una natura pro-attiva, punta a ridefinire e a riqualificare, nell’ambito dei livelli minimi di assistenza, le reti dei servizi e delle relazioni nelle aree rurali, in modo coerente con le risorse, le specificità ed i bisogni locali, rinsaldando valori di comunità e creando elementi di distinzione utili per rendere vitali ed attraenti questi territori.
Questa visione del welfare tende ad attivare energie nuove nei servizi pubblici e negli operatori, sebbene si scontri con la difficoltà di un’effettiva integrazione delle politiche pubbliche e/o gestite da enti locali diversi di una stessa area. L’idea di welfare rigenerativo si sviluppa nel solco del dibattito che lega insieme l’idea stessa di welfare, quella del welfare territoriale o di comunità (legato alla programmazione e gestione delle risorse su scala locale attraverso logiche di partecipazione e sussidiarietà) e l’organizzazione di sistemi portanti (Budget di Salute, Case della Salute, Patti Territoriali Educativi, Budget Educativi).
Un tipo di approccio ribadito nel recente Appello della Società Civile per la Ricostruzione di un Welfare a misura di tutte le persone e dei territori, rivolto al Presidente del Consiglio Mario Draghi da oltre 100 associazioni ed enti del terzo settore riuniti nella Rete Sale della Terra. Un invito a rilanciare e ripensare il welfare di prossimità, le politiche giovanili ed i diritti di cittadinanza dentro il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e nella transizione ecologica.
Nelle aree rurali, peraltro, la crisi pubblica di risorse è resa più viva dal maggiore costo unitario dei servizi (per la difficoltà di raggiungere le economie di scala indispensabili per modelli di servizio concepiti per ambiti urbani ed elevate densità di popolazione, oltre che per una struttura sociale spostata verso le classi d’età più elevate), che ne determina la rarefazione e una crisi di vivibilità. Al welfare rigenerativo, quindi, viene chiesto di operare ritrovando sostenibilità economica e, allo stesso tempo, efficacia per i singoli portatori di bisogno, come per l’intera comunità.

Le aree rurali hanno bisogni specifici che si legano alla struttura sociale della popolazione, alle modalità d’insediamento e ad alcune dinamiche evolutive in atto: la rarefazione e l’invecchiamento della popolazione, il difficile ricambio generazionale, la trasmissione di conoscenze tacite tra residenti nuovi e vecchi, giovani ed anziani, la parità di genere alla luce della domanda d’emancipazione delle giovani donne, l’ingresso e l’integrazione socio-culturale di nuovi migranti in comunità già frammentate.
Per far fronte a tali bisogni sono necessarie scelte innovative nella rete di protezione sociale, capaci di definire un welfare mix, governato dal soggetto pubblico, ma capace di avvalersi di un forte contributo dei privati e della società civile, fortemente disperso sul territorio attraverso strutture flessibili e multiscopo, pubbliche e private. Per raggiungere questo obiettivo è necessario definire scelte innovative nei metodi come nei contenuti.
Le questioni di metodo devono mirare ad evitare di riprodurre modelli di servizio diffusi e poco pertinenti e attirare risorse nuove e non scontate. In questo senso, l’adozione di forme partecipate di progettazione sociale e di sussidiarietà nella gestione dei servizi hanno il compito di mobilitare le risorse di comunità, ed in particolare le risorse del volontariato e del mutuo aiuto. Queste sono dotate di una forte componente di relazionalità, utile per ricostruire dialogo e trasmissione di saperi locali. A tale riguardo, la presa in carico dei bisogni degli abitanti da parte della comunità locale può avvenire in forte connessione con le reti istituzionali capaci di assicurare professionalità e qualità (grazie agli operatori socio-sanitari pubblici e del privato sociale), mediante l’organizzazione di meccanismi istituzionali e contrattuali, ma anche attraverso una rivisitazione delle relazioni locali, dei valori del dono, della reciprocità e solidarietà, propri del modo di vivere delle comunità rurali. L’avvio di processi d’innovazione sociale si basa sull’apprendimento collettivo e multicompetente, l’adozione di sistemi volti a premiare il monitoraggio, la valutazione qualitativa di progetti e servizi, e l’efficacia dei risultati ottenuti.

Per quanto riguarda gli aspetti di contenuto, invece, il welfare rigenerativo di comunità deve favorire una riflessione attenta sulle soluzioni tecniche ed organizzative utili per assicurare risposte adeguate ai bisogni degli strati più fragili della popolazione rurale. Esse devono basarsi su alcune specificità delle aree rurali, tra cui i condizionamenti legati ad una diversa gestione del tempo e dello spazio.
Connettività e conciliazione dei tempi di vita sono parole chiave nelle aree rurali, specie se si considerano le specificità dei ritmi di lavoro (ad esempio, dell’agricoltura) e la distribuzione spaziale della popolazione. Per favorirne l’accesso ai servizi può essere utile favorirne la loro dispersione territoriale, individuando strutture con una molteplicità di funzioni, per target multipli di utenza (centri aggregativi, sportivi, luoghi di incontro familiare, centri multiservizio, strutture di aggregazione e di ricettività turistica allo stesso tempo, e-government, piazze virtuali, e-biblioteche, etc.).
Sarebbe necessario studiare con attenzione la mobilità delle persone sul territorio mediante soluzioni di trasporto su domanda e promiscue (uffici postali e farmacie, spesa e lavanderia, bambini e anziani), supportate dal volontariato delle associazioni o dei privati, anche mediante forme innovative di compensazione. Ad esempio, attraverso la costruzione di banche del tempo verdi e lo scambio di servizi disponibili nelle aziende agrituristiche – piscine, centri ippici, mense, agriasili – mediante una mediazione dei Comuni.
La chiave di intervento per la riorganizzazione della rete dei servizi nelle aree rurali si lega alla realizzazione di adeguate economie di scopo (grazie ad una flessibilità e ad una molteplicità di impieghi delle strutture) o, grazie alla tecnologia, alla riduzione della scala minima di operatività e convenienza.
Per operare nella direzione descritta è possibile far leva sull’uso dell’informatica (dalla telemedicina alle reti), ma anche, come nel caso dell’agricoltura sociale, sull’uso delle risorse disponibili localmente. Queste ultime si prestano meglio all’organizzazione di servizi flessibili e/o a richiesta (è il caso degli agrinidi e agriasili, ad esempio), come per la domiciliazione e l’avvicinamento delle reti di servizio a diverse categorie di utenza (gli anziani, i bambini, i genitori), stimolando dialogo e accoglienza, relazioni e reciprocità, più intense relazioni tra generazioni e tra fasce di popolazione di estrazione diversa, con l’intento di ricreare comunità d’intenti.
Tutti esempi, questi, utili per assicurare un adeguato livello di servizi, lì dove le ordinarie strutture (un servizio di mensa, un nido appositamente realizzato, etc.) non troverebbero ragionevole sostenibilità economica. Soluzioni, che operano nel solco della tradizione innovativa, assicurano servizi e, allo stesso tempo, una più intensa interazione sociale tra gruppi diversi di persone, alimentando il dialogo sociale e il formarsi di nuove reti di relazione e di solidarietà.

L’agricoltura sociale può concorrere alla costruzione di un welfare rigenerativo, attraverso una più piena valorizzazione delle sue strutture a fini d’accoglienza e di servizio. In molti casi si tratta di ripensare strutture agrituristiche largamente disponibili sul territorio locale, sebbene ora siano quasi esclusivamente dedicate ad offrire servizi alla persona che si reca nei territori rurali per motivi di svago e di turismo solo in alcuni periodi specifici dell’anno.
Le strutture agricole possono diversificare la loro offerta di servizio rivolgendosi anche alle popolazioni locali mediante l’organizzazione di una rete di protezione sociale capace di legare le istituzioni pubbliche e le strutture private, capace di caratterizzarsi per il suo carattere diffuso, di semi formalità, mediante soluzioni tecniche innovative che possono riguardare aspetti molteplici: dalla organizzazione degli agriasili alla messa a disposizione di spazi per la socializzazione dei giovani, per le azioni delle proloco, per l’aggregazione degli anziani e il loro contatto con le generazioni più giovani, per il turismo sociale per categorie specifiche di utenti in carico ai servizi sociali dei Comuni, ma anche per servizi di maggiore intensità socio-assistenziale, come nel caso del notturno per anziani abili in condizioni di difficoltà lieve e temporanea o l’organizzazione di reti di prossimità, per la distribuzione di pasti o di servizi alla vita quotidiana di persone fragili.
In sostanza, l’agricoltura sociale può rappresentare un valido strumento per potenziare, diversificare e qualificare le reti di protezione sociali nelle aree rurali, dove organizzare la rete dei servizi è più oneroso e difficoltoso, favorendo una migliore personalizzazione delle risposte offerte a bisogni specifici di gruppi di persone.
Sempre attraverso l’agricoltura sociale è possibile affrontare in modo efficace il tema dell’inclusione sociale e lavorativa di soggetti a più bassa contrattualità. Un tema non semplice, sul quale si connotano la qualità della vita democratica e la coesione sociale di un territorio.
Gran parte delle esperienze di agricoltura sociale mostrano elevati livelli di efficacia nelle azioni di riabilitazione e cura di soggetti con diversi gradi e tipologie di difficoltà, non ultimo, nell’offrire opportunità di lavoro, a tempo determinato e indeterminato. Attività che necessitano una stretta condivisione e una trasparente collaborazione tra operatori sociali e socio-sanitari e aziende agricole sia nei casi in cui si intende far leva sull’impiego delle risorse agro-zootecniche per promuovere lo sviluppo delle capacità delle persone e per promuovere stati di miglior benessere, sia nei casi in cui il contatto con i processi produttivi agro-zootecnici ha l’obiettivo di arrivare ad una piena inclusione sociale dei soggetti attraverso la creazione di adeguate competenze e di corrispondenti opportunità di lavoro e reddito.

Le “fattorie sociali” sono i soggetti protagonisti dell’agricoltura sociale e rappresentano realtà eticamente orientate dove attività agricole e finalità sociali, imprenditorialità agricola e responsabilità sociale si intrecciano in un connubio virtuoso. Se da un lato svolgono un insieme di funzioni e valenze tipiche di tutte le aziende agricole che fanno attività sociale, dall’altro manifestano una tendenza ad aprirsi ad altre funzioni e servizi all’interno del contesto territoriale rurale, arrivando a configurarsi come elementi innovativi di welfare locale e come centri di nuovi servizi sociali innovativi, fino ad allargarsi ad attività di animazione del territorio rurale, passando dal welfare aziendale ad elementi di welfare territoriale.
Le fattorie impegnate nell’agricoltura sociale offrono alle politiche pubbliche e alla collettività servizi socio-sanitari, formativi, ricreativi, di coesione sociale e di inserimento lavorativo di soggetti contrattualmente deboli, a costi più sostenibili, con forti contenuti inclusivi e con effetti virtuosi sullo sviluppo delle comunità locali.
Pertanto, le fattorie sociali si configurano come luoghi e contesti di inclusione sociale, di benessere, di riabilitazione e cura che offrono al welfare dei territori rurali l’occasione di sperimentare un cambiamento importante nella tipologia dei servizi socio-sanitari. Poter offrire contesti non rigidamente istituzionalizzati e medicalizzati per la cura (le terapie verdi) e il reinserimento socio-lavorativo permette, infatti, di ridisegnare il sistema di welfare attorno a valori completamente diversi dal passato (superando un’ottica assistenzialistica fondata esclusivamente sulla redistribuzione delle risorse dal sistema produttivo ai servizi di cura), in un’ottica sistemica e di responsabilità diffusa (con il coinvolgimento di tutti gli attori sociali), che può consentire di migliorare il livello della qualità della vita della popolazione locale, aumentare il potere attrattivo di un territorio e allo stesso tempo sperimentare “dal basso” pratiche di sostenibilità sociale, ambientale ed economica.

Un nuovo modello di sviluppo locale sostenibile nelle aree rurali

L’agricoltura sociale non va solo considerata una “pratica virtuosa” che ha un grande valore in sé, ma soprattutto come una componente rilevante di un nuovo modello di sviluppo rurale sostenibile e di un nuovo welfare locale partecipato.
La valorizzazione dell’agricoltura non omologata agroecologica dipende dal passaggio dal riconoscimento di una generica funzione sociale dell’agricoltura (che vi è sempre stata), ad una funzione di conservazione e riproduzione della biodiversità e del paesaggio come componenti essenziali del contesto di vita delle popolazioni rurali, espressione del patrimonio culturale e naturale dei diversi territori, habitat in cui l’individuo ha la possibilità di realizzare il proprio progetto di autodeterminazione. Una concezione in cui memoria, conoscenza, esperienze riferite alle profonde interrelazioni tra uomo e natura e capacità creativa di nuove idee vanno messe a frutto per riprodurre le risorse limitate del pianeta e finalizzarle in modo equo ed efficiente allo sviluppo umano.
In tale quadro, riscoprire e valorizzare valori immateriali (stili di vita, patrimoni culturali, tradizioni, etc.), prodotti storicamente dalle comunità rurali e legati all’esistenza di beni relazionali (reciprocità, dono, conoscenza diretta) e non solo alle relazioni di mercato, è decisivo per assicurare durevolezza e autenticità alle risorse collettive da valorizzare nei processi di sviluppo rurale. Occorre ridare dignità al lavoro agricolo, invogliare a un ritorno nelle campagne e non al loro abbandono, rendere il mondo rurale un luogo in cui è piacevole vivere e non mancano i servizi, mantenere vive le tradizioni, i saperi contadini, la capacità di produrre in sintonia con il proprio ambiente, senza sprechi o sovrasfruttamento delle risorse. Un tipo di localismo che non rappresenta un ritorno al passato, né tanto meno a chiusure autarchiche, bensì un’occasione per rispondere alle sfide della globalizzazione puntando alla valorizzazione delle risorse interne dei contesti locali e delle specificità che li contraddistinguono.
La possibilità di percorsi di sviluppo rurale durevoli basa la forza sull’esistenza di comunità vitali, su un profondo dialogo intergenerazionale capace di favorire il trasferimento di conoscenze tacite, su un rinnovamento delle reti tradizionali di mutuo aiuto e di presa in carico delle comunità. A questo proposito, l’agricoltura sociale consente di guardare in modo innovativo alla tradizione, valorizzando risorse disperse e non pienamente utilizzate (dell’agricoltura, delle strutture agrituristiche) per fornire le molteplici risposte di servizio necessarie ai bisogni delle popolazioni locali, ed in particolare di quelle più deboli e, allo stesso tempo, rivitalizzare e rendere attraenti comunità e località che spesso rischiano di appiattirsi su un’offerta troppo caratterizzata da punto di vista commerciale.

Per evolvere positivamente e consolidarsi il movimento dell’agricoltura sociale e delle fattorie sociali ha bisogno di darsi una maggiore organizzazione, ma soprattutto ha la necessità di confrontare e di condividere le proprie pratiche per tradurle in nuove esperienze e in forma di proposte da indirizzare alle istituzioni e alla politica. Lo sviluppo dell’agricoltura sociale e la capacità di fare sistema dipendono essenzialmente dalla capacità di tessere rapporti tra mondi e soggetti che finora hanno parlato linguaggi diversi e di mettere in campo progetti integrati di sviluppo locale. A questo proposito sarebbero necessari degli aimatori di territorio dell’agricoltura sociale, delle figure professionali che siano in grado di mappare, promuovere la nascita ed accompagnare le fattorie sociali e, al tempo stesso, tessere reti territoriali propedeutiche alla costruzione di sistemi integrati di welfare di comunità. Una figura professionale, ad esempio, formata dal Master in agricoltura sociale promosso dall’Università di Roma Tor Vergata e diretto dal professor Andrea Volterrani.
L’organizzazione di un sistema territoriale capace di valorizzare le risorse dell’agricoltura a fini sociali è un progetto di lavoro non di breve respiro, da portare avanti con cura ed attenzione, senza improvvisazione e con piena tutela delle parti coinvolte, in primo luogo degli utenti. Per fare sì che questo avvenga è importante assicurare l’organizzazione di un coordinamento territoriale sul tema, come peraltro sta già avvenendo in alcuni territori italiani (ad esempio, nel Biodistretto Sociale di Bergamo), anche meridionali (soprattutto in Sicilia), ed assicurare un serrato dialogo ed una capacità di collaborazione tra soggetti pubblici, privato sociale, volontariato, privato d’impresa. Solo lo sviluppo di una visione radicalmente innovativa dell’organizzazione dei servizi alla persona può facilitare l’avvio di soluzioni quali quelle portate avanti dall’agricoltura sociale e delle fattorie sociali.
Il dialogo e coinvolgimento di una gamma estesa di soggetti può facilitare lo sviluppo di una co-progettazione tra area socio-sanitaria ed agricoltura. L’adeguamento delle strutture da destinare a tali servizi è un aspetto rilevante, sebbene non problematico e in alcuni casi probabilmente neanche necessario. Maggiore impegno deve essere riservato alle azioni d’informazione, formazione, tutoraggio, necessarie per favorire una ridefinizione delle reti di protezione disponibili sul territorio, una rimodulazione della rete dei trasporti e l’organizzazione di procedure e regole adeguate alle proposte delineate.

In alcuni casi – ad esempio, agriasili, notturno per persone in difficoltà temporanea, inserimenti socio-terapeutici nei laboratori di agricoltura sociale – le regole da adottare possono seguire l’impostazione di mercato (pagamenti diretti) o di quasi mercato (compensazioni e indennità). Altre volte si può porre l’utilità di definire nuove forme di negoziazione e scambio tra strutture pubbliche e private – ad esempio, la messa a disposizione per alcuni giorni l’anno di una sala per incontri in cambio della negoziazione di alcuni sgravi fiscali o di alcune facilitazioni e/o servizi da parte del Comune.

È chiaro che molte delle proposte che possono essere avanzate implicano una profonda revisione dei rapporti esistenti tra servizi sociali pubblici, privato sociale, aziende agricole e, più in generale, una visione radicalmente differente dell’organizzazione dei servizi a favore di una integrazione delle logiche di sviluppo economico e di comunità.
Le risorse utili per avviare questi percorsi sono oggi disponibili nei piani di sviluppo rurale, ma anche nelle dotazioni del Fondo Sociale Europeo (FSE) e del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR). Sebbene sia sempre utile non dimenticare le risorse ordinarie disponibili per le politiche socio-assistenziali gestite attraverso i Piani sociali e socio-sanitari di zona.
Inoltre, la Fondazione con il Sud potrebbe decidere di destinare parte dei propri fondi per finanziare bandi mirati a favorire lo sviluppo e il consolidamento, oltre che di nuove imprese di agricoltura sociale, di reti territoriali integrate di welfare di comunità che fanno leva sul ruolo innovativo che l’agricoltura sociale e le fattorie sociali possono giocare nei territori rurali del Mezzogiorno.
Di fatto, intorno al tema dell’agricoltura sociale ruota una scommessa attraente, la capacità di organizzare nei territori rurali sistemi locali e reti di relazioni più responsabili ed organici, capaci di promuovere sistemi durevoli e qualificati di vita e benessere per le popolazioni.