AAEAAQAAAAAAAAiFAAAAJDExMzgwMDhjLWQxNTQtNDhiNC1iOTUzLTQ2ZjBlYWZjNjM2Ng Alessandro Carucci, neo laureato con una tesi dal titolo “Smart Valley 100% Bio Valposchiavo: un progetto di territorialità sostenibile” collabora con la Scuola Ambulante di Agricoltura. Questo è il primo di una serie di articoli in cui affronterà questi temi.

altri riferimenti

Agricoltura industriale, il modello per sfamare il pianeta? di Osvaldo Failla

Agroecologia e agricoltura biologica di Alessandro Carucci

Smart Valley 100% Biologico di Alessandro Carucci


Rivoluzione Verde e agricoltura moderna

La strada per un’agricoltura di stampo industriale può essere datata 1847 quando Justus von Liebig, chimico tedesco, trovò nel fosforo, nel potassio e nei sali minerali provenienti dalle miniere del Cile e degli Stati del Pacifico le sostanze adatte a fertilizzare la terra. Questi elementi pur essendo di provenienza organica sono fonti non rinnovabili, ciò vuol dire che sono sottratte alla Terra per sempre. E’ a partire da questa innovazione tecnologica che l’attività agricola inizierà ad utilizzare, in misura sempre crescente, fonti non rinnovabili all’interno dei suoi processi produttivi. Il vero e proprio passaggio verso un’agricoltura di stampo industriale è da ricercarsi attorno all’anno 1947 quando la Muscle Shoals, gigantesca fabbrica di munizioni situata nello stato americano dell’Alabama, si convertì verso la produzione di fertilizzanti sintetici. Questo perché i dirigenti dell’allora fabbrica di munizioni scoprirono la possibilità di utilizzare il nitrato di ammonio, principale componente degli esplosivi, come ottima fonte di azoto per la vita delle specie vegetali. In questo modo che nacque il settore industriale dei fertilizzanti (e dei pesticidi che, similmente, sono un sottoprodotto ricavato dai gas tossici impiegati in guerra): allo scopo di riconvertire l’imponente industria bellica approntata dal governo statunitense per fronteggiare le necessità del secondo conflitto mondiale appena conclusosi. Nel dettaglio, fu il settore produttivo del mais l’ambito in cui trovarono una prima applicazione le innovazioni in tema di strumentazioni, tecniche e ricerche effettuate dai laboratori di ricerca americani allo scopo di selezionare quelle varietà di mais più produttive.


Dall’agricoltura convenzionale all’agro-ecologia


Ed eccoci alla Rivoluzione Verde in agricoltura. Il modello basato sulla rotazione dei terreni e sull’incorporazione di letame animale allo scopo di garantire la fertilità degli stessi (e la loro produttività) viene definitivamente soppiantato dall’introduzione dei fertilizzanti di sintesi. Sarà un cambiamento epocale, il cui destino sarà di rovesciare quella proficua relazione Uomo-Terra avviata all’epoca delle prime domesticazioni di specie vegetali ad opera di gruppi stanziali in Mesopotamia e capace di conservarsi per millenni nei suoi tratti eco-logici fondamentali (seppur con grossi cambiamenti negli strumenti agricoli e nelle tecniche di lavorazione dei terreni).

Rivoluzione Verde

si passa in un nuovo modello, in un nuovo paradigma di riferimento. Ora, grazie alle nuove tecnologie agro-industriali, in un’azienda agricola il mais può essere coltivato su qualsiasi terreno disponibile, senza curarsi dell’apporto vantaggioso di altre coltivazioni da far ruotare in alternanza a quella principale e senza il bisogno di possedere animali che garantiscono fertilità attraverso le deiezioni. In sostanza, l’azienda agricola si libera dai vincoli biologici su cui era da sempre fondata e d’ora in avanti diventa possibile condurla come una vera e propria industria che trasforma input (fertilizzanti e prodotti chimici di sintesi) in output/prodotti agricoli (mais, soia, grano). Così come per il reparto industriale, anche nel comparto agricolo si inizia a parlare di rendimenti crescenti di scala e meccanizzazione.

Il modello agronomico di stampo industriale si svilupperà attraverso studi di genetica e di intensificazione agronomica e, chiaramente, attraverso la relativa diffusione dei risultati ottenuti. Il motore cardine di questo processo di industrializzazione in agricoltura era costituito, così come avviene nelle procedure e nelle dinamiche che regolano il settore industriale, da ricerche da effettuarsi su un singolo prodotto-coltura o prodotto-animale al fine di selezionarne le varietà o gli ibridi che rispondessero a caratteristiche di potenziata capacità di produzione. La diffusione delle informazioni e degli strumenti sarebbe dovuta procedere dall’alto verso il basso, dalle équipe di ricerca alle aziende agricole. Gli agricoltori in grado di adottarli avrebbero ottenuto un aumentato livello di produzione, applicando uno schema agronomico caratterizzato da intensificazione della coltura (raggiungendo finanche regimi di mono-cultura) o dell’allevamento.

Il territorio (americano) nel quale si verificava questa particolare struttura agronomica, che venne in seguito adottata quale struttura-base e come modello da esportare negli altri Paesi, era caratterizzato dalle seguenti condizioni:

  • numerosi agricoltori e ditte erano impegnati nella produzione della stessa commodity all’interno dello stesso mercato;
  • il singolo attore in scena era troppo piccolo per influire sul prezzo della commodity;
  • ogni agricoltore produceva nel tentativo di migliorare il proprio bilancio economico aziendale aumentando le produzioni;
  • la maggioranza di agricoltori aveva facile accesso al credito, ai fertilizzanti e alle fonti di informazione (giornali, consulenti, ecc.); inoltre facevano parte di organizzazioni e associazioni di categoria, il che li rendeva facilmente rintracciabili. (Bocchi, 2015, p.138)

Dall’agricoltura convenzionale all’agro-ecologia


I buoni risultati raggiunti dalla maggior parte delle aziende a conduzione agro-industriale fecero nascere la convinzione di poter diffondere il modello, dapprima all’interno del paese americano, ed in seguito all’estero. A questo scopo, vennero messe a punto procedure e strumenti per permettere alla tecnica colturale-industriale di espandersi verso altri paesi. In varie località del mondo vennero istituiti centri di ricerca (Consortium of International Agricultural Research Centers) specializzati nello studio dei progressi relativi ad una singola coltura, caratterizzati da elevata specializzazione e con l’obiettivo di potenziare la produzione e dunque l’approvvigionamento alimentare delle nazioni in cui venivano progressivamente creati.

Nel 1943, a Città del Messico, venne fondata l’International Agricultural Research Center, finanziata dalla fondazione Rockefeller e dal governo messicano, che si proponeva l’obiettivo di migliorare specificatamente due colture: frumento e mais. Il centro si distinse con riconoscimenti su scala mondiale per i risultati raggiunti sulle nuove varietà, con miglioramenti in grado di aumentare enormemente le rese. Queste nuove varietà raggiunsero negli anni Cinquanta e Sessanta i paesi del Sud America, dell’Asia e dell’Africa, favorendo l’intensificazione agronomica e, in alcune aziende, incrementi produttivi e progressi economici.

Sulla base delle stesse logiche vennero in seguito fondati l’International Rice Research Institute e l’International Institute of Tropical Agricolture, finanziati dalle fondazioni Rockefeller e Ford.

Nell’ottica di espandere il progetto e di aumentare le risorse, oltre a quelle già fornite dalle due fondazioni, nel 1971 venne istituito il Consultative Group on International Agricultural Research che era a sua volta formato da United Nations Development Programme (UNDP) e International Bank for Reconstrucion and Development, con sede presso la Banca Mondiale, a Washington DC. Il consorzio, da lì in poi, operò grazie alle risorse di 34 enti finanziatori tra cui organizzazioni multinazionali, governi e fondazioni private supportate da un ristretto numero di ricercatori selezionati.

Negli anni Settanta si aggiunsero altri grandi centri finalizzati alla ricerca su altre colture: i risultati ottenuti relativamente alle innovative ‘varietà ad alta produttività’ (HYV, High Yielding Varietis) di colture quali frumento e riso ebbero risultati positivi nelle aree messicane, indiane e del sud-est asiatico mentre ebbero scarsi o negativi risultati altrove, specialmente nelle aree africane.

Alla luce di questi ambivalenti risultati nacque, a partire dagli anni Settanta, una rinnovata attenzione alle ricadute in ambito sociale, economico ed ecologico derivanti dalla sostituzione del sistema agricolo tradizionale con tale innovativo modello agro-industriale, ricadute che non erano state previste nei laboratori di ricerca durante i programmi di miglioramento genetico delle colture. A questo proposito si sottolineò che, continuando a scommettere sulla validità di un sistema agro-industriale così condotto, gli agricoltori sarebbero stati sempre più dipendenti dal mercato delle sementi, dei concimi e degli antiparassitari, sarebbero aumentati gli impatti sulle risorse naturali utilizzate a scopo agricolo e finanche sulla salute degli agricoltori stessi. Solamente quarant’anni dopo possiamo a malincuore constatare che queste previsioni non erano affatto erronee, specialmente per alcune aree del pianeta.


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Modello innescato dalla Rivoluzione Verde

ha portato a grossi miglioramenti per alcuni tipi di azienda agricola – specialmente quelle in grado di possedere vaste porzioni di terra, di realizzare investimenti, di accedere a fondi pubblici e supporti professionali – ma di certo non per quella moltitudine di piccole, ma anche medie aziende che hanno subìto ricadute fortemente negative ed impattanti.

In merito a ciò, nel 1993, l’economista rurale Willard Cochrane propone la teoria dell’Agricultural Treadmill secondo cui in una prima fase di innovazione tecnologica in agricoltura, come è stata la Green Revolution, sono i primi agricoltori capaci di adottarla quelli a trarne un maggiore beneficio, acquisendo una posizione di vantaggio rispetto agli altri attori del settore che agiscono in un contesto pre-tecnologico.

Ne deriva una condizione in cui, spinte dalle forze di mercato, le aziende agricole che possiedono le caratteristiche per aderire allo schema innovativo (dimensioni, caratteristiche del suolo e, soprattutto, risorse economiche) si sviluppano a svantaggio delle aziende agricole più piccole che, caratterizzate da debolezze intrinseche nel mutato scenario, abbandonano l’attività e cedono i loro terreni. Le susseguenti acquisizioni fondiarie, a loro volta, favoriscono il processo di scala per le aziende più grandi, che aumentano le proprie superfici e intensificano la produzione.

In sostanza il pensiero di Cochrane esprimeva la convinzione che, nei contesti territoriali dove fosse stato adottato su larga scala il modello agricolo-industriale, si sarebbe assistito ad un passaggio da una condizione preesistente composta da numerose aziende agricole caratterizzate da un’agricoltura di sussistenza ad uno scenario in cui poche aziende agricole avrebbero adottato un’industrializzazione spinta dei loro processi produttivi rivolti al mercato.


Dall’agricoltura convenzionale all’agro-ecologia

Green Revolution

ha portato a mutamenti nel settore primario in termini di:

  • intensificazione
  • specializzazione
  • semplificazione
  • settorializzazione

Nel mutato scenario l’azienda agricola insegue gli andamenti del mercato, si specializza nella produzione di un numero limitatissimo di colture (se non in vera e propria monocultura), si ristruttura in chiave industriale e perde gradi di autonomia rispetto al passato, essendo ora inserita all’interno di una filiera agro-alimentare di cui rappresenta solo una piccola parte.

Aumenta il bisogno di ricorrere a mezzi produttivi offerti dal mercato: sementi, fertilizzanti, insetticidi, pesticidi, fonti di energia, sistemi di controllo per le piante e gli allevamenti diventano tutti beni da acquistare. In questo modo l’agricoltore è costretto, secondo logiche e dinamiche eterodirette dai laboratori della ricerca agro-industriale, in uno schema il più delle volte non funzionale con l’identità dell’azienda stessa (ad es. tipologia ed organizzazione delle colture) o con le caratteristiche pedoclimatiche del terreno sulla quale opera.

La rivoluzione verde si sviluppa con una sostanziale sottovalutazione delle problematiche relative alla sbilanciata distribuzione del controllo delle risorse sottostanti il funzionamento dei sistemi agro-alimentari – Stefano Bocchi

Dall’agricoltura convenzionale all’agro-ecologia

Il modello dell’agro-industria porta le aziende agricole a concentrarsi nelle zone di pianura considerate più produttive, convenienti e comode da gestire in ragione degli spazi più ampi e dell’uniformità del suolo, consentendo ai macchinari di lavorare più agevolmente e di aumentare così la produzione. In risposta, si assiste allo sradicamento e all’abbandono dell’agricoltura nelle aree montane che, pur possedendo una tradizionale vocazione agricola, vengono ora definite aree marginali poiché difficilmente lavorabili secondo le moderne tecniche e, di conseguenza, economicamente sconvenienti per una produzione intensiva; infatti, nel modello agro-industriale, l’azienda si concentra unicamente sulla produzione di alcuni e ben specifici prodotti standardizzati, così come richiesto dal mercato.

il paradigma dell’agricoltura industriale

permette di avviare processi di fusione verticale delle aziende operanti nel settore primario, generando un sistema agricolo ed agro-alimentare concentrato nelle mani di pochi operatori che possiedono il controllo delle fasi di produzione, trasformazione, trasporto e distribuzione. Con la Rivoluzione Verde l’obiettivo definito è stato applicare il modello di tipo industriale in agricoltura allo scopo di rispondere alla sfida di una produzione alimentare adeguata per un mondo in rapida crescita demografica.

Allo stesso tempo, però, si sono malauguratamente prodotti degli effetti negativi non di poco conto: forte dipendenza da prodotti di sintesi derivati dal petrolio e ad alto impatto ambientale, degrado dello stato di conservazione dei suoli e delle acque utilizzate in maniera a dir poco intensiva nei processi produttivi agro-industriali, cessazione dell’attività agricola in aree a tradizionale vocazione rurale, abbandono del presidio territoriale in molte aree vulnerabili sotto l’aspetto del dissesto idro-geologico, ecc.


Dall’agricoltura convenzionale all’agro-ecologia


Per ottenere una più chiara e approfondita comprensione dell’ambivalenza degli effetti risultanti dall’adozione del paradigma agro-industriale, ritengo utile fornire alcuni dati di tipo quantitativo. Eccone alcuni: se consideriamo i cinquant’anni che vanno dal 1961 al 2011, la produzione agricola mondiale ha subito un incremento di un valore che va, a seconda delle differenti rilevazioni, dal +150% al +200%. Nello stesso periodo la superficie di suoli coltivati e irrigati nel mondo è aumentata del 120% mentre, con il contributo dei progressi citati, la superficie di terra necessaria per alimentare una persona è diminuita del 50%. La produzione di grano è passata dai 7-8 ai 30 quintali all’ettaro, mentre la produzione di latte di un bovino è aumentata dai 3-4 litri ai 15-20 litri.

Questi indubbi vantaggi in termini di produttività risultanti da questi sintetici esempi vanno però controbilanciati, come detto, con altri dati meno confortanti: nel corso dell’intero Novecento la biodiversità delle colture e delle razze animali impiegate nel comparto agro-industriale è diminuita del 75% ed insieme i servizi eco-sistemici da essa garantiti.

Le specie attualmente coltivate su scala mondiale sono solo 150, considerando che sarebbero circa 7.000 le specie vegetali utilizzabili dall’uomo per la sua alimentazione. Il 75% degli alimenti consumati dall’uomo è fornito da solo 12 specie di vegetali – tra cui le 4 principali riso, mais, grano e patata – e da 5 specie animali  – tra cui le 3 principali bovini, suini e pollame.

Consideriamo poi alcuni dati relativi agli impatti che questa agricoltura di stampo industriale ha sulle risorse naturali dell’ambiente: sono 15.000 i litri di acqua necessari per produrre un chilo di carne di manzo, 5.000 quelli che servono per ottenere un chilo di riso, 2.000 per un chilo di soia. Specularmente, cioè ponendosi nella prospettiva dello spreco alimentare attuale che raggiunge secondo la FAO la spaventosa cifra di 1,3 milioni di tonnellate, i volumi di acqua potenziale necessari a tali produzioni sprecate si traducono a loro volta in milioni di litri di acqua dissipati. Nel complesso l’agricoltura consuma il 70% dell’acqua dolce del pianeta ed è indirettamente responsabile del 40% di inquinamento delle acque di superficie derivante dall’utilizzo di prodotti chimici. E questo senza considerare le emissioni in atmosfera di CO2 (derivanti dall’utilizzo dei macchinari) e di metano (generate dagli allevamenti intensivi).



Un altro tema, anch’esso diretto risultato della spinta industriale adottata dal sistema agricolo, è quello relativo alla proprietà delle sementi: ciò che prima era autoprodotto e garantiva il mantenimento e la successione delle colture viene ora acquistato in un mercato in cui i detentori di questi preziosi beni sono poche e potenti multinazionali.

E’ nel 1986 che viene per la prima volta brevettato il principio attivo contenuto nel seme dell’albero del neem da parte dello statunitense Robert Larson, importatore di legno dalle regioni indiane. Quest’albero veniva (e viene) storicamente impiegato dagli agricoltori locali per uso medico e agricolo, tant’è che viene citato in testi redatti più di duemila anni fa in cui vengono divulgate le sue proprietà depurative dell’aria e di rimedio contro gran parte delle malattie umane e animali grazie all’effetto repellente contro insetti e parassiti. Notandone le vantaggiose caratteristiche, Larson iniziò ad importare nel suo Wisconsin le sementi di neem e nel 1986 ricevette dall’ Environmental Protection Agency (EPA) il permesso di brevettarlo e commercializzarlo. mA partire da questa data, la possibilità di brevettare anche organismi viventi come i semi spianerà la strada verso un’agricoltura sempre più omologata, che si basa fortemente su sementi ibride il cui commercio è controllato da poche aziende.

Aziende sementiere

Negli anni Settanta si contavano 7.000 aziende sementiere oggi, attraverso verticalizzazioni e fusioni, le prime dieci detengono il 76% del mercato, ed in particolare le prime tre (Monsanto, Pioneer-Dupont, Syngenta) ne occupano il 53%. Se si considera poi che tali imprese sono anche leader nel commercio di fertilizzanti, pesticidi e diserbanti risulta evidente l’intreccio tra la produzione di semi e quella di erbicidi e insetticidi, mostrando così in maniera evidente l’approccio top-down intrinseco al modello dell’agro-industria, in cui agli agricoltori spetta il solo ruolo di esecutori acritici delle direttive impartite dall’alto. Se si ampliasse poi la trattazione dal tema della proprietà delle sementi al discorso dei semi di natura geneticamente modificata (OGM), sebbene non ci sia in questa sede e per giunta in poche righe la presunzione di affrontare un tema così complesso e dalle molte sfaccettature, mi limiterei ad osservare gli avvenimenti che nel tempo si sono succeduti in merito. Il loro utilizzo, iniziato attorno agli anni Sessanta e Settanta dapprima solamente in quanto prodotto di ricerca in laboratorio (fatta eccezione per brevi introduzioni di semi OGM nel mercato ma subito ritirati dal commercio in quanto difettosi), si concretizza attorno al 1996 con la prima commercializzazione del seme di soia geneticamente modificato dalla Monsanto e con le prime coltivazioni intensive.


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Ad oggi le colture OGM più diffuse nel mondo sono il mais, la soia appunto, la colza e il cotone; ragionando di superfici, si passa dai 1,7 milioni di ettari coltivati a colture OGM nel 1996 ai 175,2 milioni del 2013. Come detto, la proprietà è in mano a pochissime multinazionali leader anche nella produzione di fertilizzanti, pesticidi e diserbanti appositamente studiati per supportare la crescita e la produzione massima per ciascuna specifica semente.

Purtroppo, l’esperienza di molte associazioni di agricoltori (escluse le grosse aziende agricole basate su intensivizzazione e monocultura) ha dimostrato che l’introduzione di colture OGM rappresenta un serio pericolo per la biodiversità in quanto ne provoca la riduzione, per la sovranità alimentare dei popoli in quanto li priva della proprietà delle sementi e per il benessere stesso degli agricoltori che si percepiscono sempre più ridotti al rango di meri esecutori di direttive ed alienati dal prodotto del proprio lavoro (sullo stile del lavoratore operaio di chapliniana memoria).

Anche il comparto zootecnico, anch’esso condotto secondo procedure ‘industriali’, produce enormi impatti nei confronti degli ecosistemi dove viene condotto: ad esempio in America Latina dove l’espansione dei pascoli derivante dall’aumentata domanda di proteine nella dieta mondiale, e di cui il continente sud-americano è uno dei più grandi esportatori, è una delle cause determinanti la vastissima deforestazione in atto e quindi dei devastanti impatti ambientali che seguiranno.

Come se non bastasse, l’allevamento e le attività ad esso legate sono impattanti anche per il consumo e l’inquinamento di suolo e acqua: al settore, intendendo il comparto di produzione e trasformazione delle carni, si addebita l’8% del consumo di acqua dolce a livello globale. Negli Stati Uniti è stimato al 30% l’inquinamento di fosforo e azoto nelle falde acquifere che deriva dalle attività della filiera zootecnica. Tali dinamiche si traducono infine in problematiche legate alla gestione degli scarti e dei liquami.

Anche l’inquinamento atmosferico, che si esprime in un contributo nocivo non trascurabile ai cambiamenti climatici, è un prodotto problematico delle attività di allevamento. Basta citare i processi digestivi di mucche e ruminanti, che sono stimati essere 25 volte più nocivi dell’anidride carbonica ed equivalenti al 14,5% delle emissioni di gas serra totali.

D’altronde, va detto, questo è il settore da cui deriva il 17% dei beni alimentari destinati al consumo umano, nonché una delle principali fonti di cibo al mondo, ed è destinato ad aumentare il proprio peso in futuro alla luce del prevedibile aumento di domanda di proteine nelle diete dei ceti medi dei paesi in via di sviluppo.


Riferimenti

Agroecologia e agricoltura biologica di Alessandro Carucci

Smart Valley 100% Biologico di Alessandro Carucci